Cultura e Spettacoli

E' morta Nanda Pivano, amica fedele della libertà

E' scomparsa la grande saggista e traduttrice che ha fatto conoscere agli italiani l’America del ’900. Hemingway, Kerouac, De André e molti altri: per tutti era un esempio di apertura

E' morta Nanda Pivano, 
amica fedele della libertà

La scrittrice Fernanda Pivano è morta ieri sera, in una clinica privata milanese dove era ricoverata da tempo. Aveva da poco compiuto 92 anni e soltanto un mese fa aveva consegnato all’editore Bompiani la seconda parte della sua autobiografia. Nata a Genova il 18 luglio 1917, con la sua opera di saggista e traduttrice è stata per molti decenni il collegamento principe tra gli scrittori americani e l’Italia. Amica di Hemingway, Kerouac, Ginsberg, De André, Corso, Pavese e di tantissimi altri artisti, ha esercitato un influsso imprescindibile sul nostro ’900.

Quella sera, a casa De André, Beppe Grillo raccontava. «Ero a Teheran - diceva - per conoscere i miei suoceri, ché mia moglie è iraniana. Telefonai a mia madre e un ansimare sospetto, nella cornetta, mi rivelò che il telefono era controllato. Peggio: che il poliziotto incaricato di spiarmi soffriva d’asma». La risata di Nanda la serbo ancora nel cuore: rideva a garganella, con un’allegria golosa. E c’era, nella sua ilarità, una gioia di vivere così prepotente che diventare amici fu inevitabile.

Fu così che Fernanda Pivano, un mito, divenne semplicemente la Nanda. Era impossibile sottrarsi a quel dono di complicità, che irradiava da lei catturandoti: come una festevole tela di ragno, o la luce d’un paesaggio assolato. In più amava la musica: i cantautori, il rock e tutto quanto nasca dal pentagramma della mente ma soprattutto dalla pancia e dal cuore - non per compiacere le pedestri strategie del mercato, ma per raccontare la vita e magari donare a chi soffre il balsamo dell’utopia. Bob Dylan, per esempio, cui dedicò saggi decisivi per empatia e nitidezza: «Lo conobbi a New York - raccontava -, ero a cena con Ginsberg e Gregory Corso, arrivò lui ed era così fatto che non capiva lui stesso quel che diceva. Ma t’inondava col suo carisma, come accade ai grandi poeti: e nessuno è poeta come lui».

Di Dylan amava soprattutto una lirica («Qui giace Bob Dylan/ assassinato alle spalle da carne tremante/ che respinta da Lazzaro/ gli balzò addosso per solitudine»). E una canzone, My back pages, che in qualche misteriosa maniera la raffigurava, nei suoi sdegni e nei suoi sogni: «Il pregiudizio naufragato balzò/ a lacerare tutto l’odio/ sognai fatti romantici di moschettieri/ posati nel profondo/ Ah, ma ero molto più vecchio, allora/ ora sono più giovane».

La rividi, più avanti, all’uscita da un concerto di Lou Reed. Lui, dal palco, aveva appena finito di celebrare in musica Andy Warhol e Edgar Allan Poe, lei usciva dal Forum d’Assago col suo passo titubante di vecchiezza e il consueto sorriso da ragazza felice. S’appoggiava al braccio di Luciano Ligabue, mi scorse e mi disse, semplicemente: «Che bello». «Che cosa?», chiesi, sapendo già la risposta. «Tutto», chiarì. Voleva dire: il rock, la poesia, l’amicizia, questa sera. Insomma la vita.

Forte di ciò collaborò a un disco della Pfm, scrivendo un testo e recitandolo, e Franz Di Cioccio mi parlò di lei «bambina curiosa, che s’entusiasma di tutto e la cui allegria ti travolge, la cui innocenza ti contagia». Che è quanto oggi, senza la Nanda, ci manca di più, e fa sentire l’esistenza un po’ più grigia.

Con la stessa allegria Fernanda Pivano raccontava dei suoi amici famosi, e con una naturalezza che escludeva ogni sospetto di vanteria: come se essere stata sodale, sorella, figlia e magari un po’ madre di Hemingway, Kerouac, Ginsberg, Corso, Pavese fosse l’approdo normale di un’anima bella, vogliosa di bellezza e di emozione, com’era la sua. Volle scrivere la prefazione d’un mio libro su De André, e un altro, sullo stesso argomento, lo scrisse con Michele Serra e col sottoscritto. E mi raccontò come fosse nata, la fratellanza con l’unico, tra i cantautori, in grado di contendere a Dylan il primato della grandezza.

«Intanto - diceva - Fabrizio è il maggior poeta italiano degli ultimi cinquant’anni, non dirmi che ne vedi di più grandi. Ricordo, sono passati quarant’anni, ero a Nervi e avevo appuntamento con Hemingway. Per far venire l’ora entrai in un bar, c’era un juke box e suonava La guerra di Piero: mi lasciò stupefatta quella voce incredibile, e il testo. C’è questo povero soldato che cammina, “il vento ti sputa in faccia la neve”, passa un tizio, ha “il tuo stesso identico umore/ ma la divisa d’un altro colore” e così i due s’ammazzano a vicenda. Nessun altro è riuscito a farci sentire così dissennata la follia della guerra».

Poi Fabrizio trasferì in un disco, Non al denaro non all’amore né al cielo, alcune liriche dell’Antologia di Spoon River, che la Nanda aveva fatto conoscere all’Italia del fascismo, quando Pavese le aveva chiesto di tradurre quel libretto arrivato dall’America. «Lessi i testi che Faber aveva già scritto - mi disse -, e li scoprii più belli degli originali di Lee Masters: più densi, poetici, liberi». Più anarchici, insomma, nel senso umanistico del termine. Nel senso dei «santi senza Dio» di cui parla Malatesta: «Perché Fabrizio non è mai stato, checché se ne dica, un maudit: semmai un anarchico vero», diceva la Nanda. E spiegò, a un convegno su De André che condividemmo: «Un anarchico deve cominciare con l’essere buono, c’è questa illusione molto ottocentesca, di credere ancora che c’è qualcuno buono. E Fabrizio era buono, accidenti se lo era».

Ci unì, De André, la Nanda e il sottoscritto, la comune genovesità, e la nostalgia che lega un esule alle sue memorie. Milanesi d’accatto, amavamo sentirla evocare la sua infanzia, e scoprire rimpianti comuni nei racconti di questa ligure atipica, estroversa come la nostra gente solitamente non è. Era figlia, adeguatamente riottosa, della Genova bene, e parlava con lampi d’autoironia di quella città bellissima «che non ti capisce, ed è per questo che tanti genovesi diventano artisti: per rabbia».

Ecco chi era la Nanda. Saggia e irruente, acre e tenera. Rigorosa, pervasa però dalla sublime sregolatezza del sentimento. Candida e chiaroveggente come accade agli eterni bambini: insomma «una ragazza di vent’anni - scrisse De André - che traduce le poesie d’un libertario mentre la società italiana ha tutt’altra tendenza.

È successo fra il ’37 e il ’41: quando questo ha significato coraggio». 

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