Cultura e Spettacoli

Ecco chi era veramente David Foster Wallace

Puntuale come la vendemmia, o meglio come le foglie morte, arriva in libreria la «conversazione con l’Autore» più attesa di quest’anno. Se non la più attesa, sarà almeno, ne siamo certi, la più venduta, perché l’Autore in questione è il Genio con la Bandana, la stella polare di tutti gli abbonati di Wired, lo scrittore (morto) più cool degli ultimi due decenni. Insomma, è David Foster Wallace (1962-2008). Di cui tutti, naturalmente, abbiamo letto per intero le 1200 pagine di Infinite Jest con gli stessi vertiginosi brividi estetici provati per Anna Karenina.
Ma se non l’abbiamo fatto - e siccome la vita è breve, non l’abbiamo fatto - non perdiamoci questo bigino dialettico, utile nei salotti, in uscita da minimum fax: Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta (pagg. 400, euro 18,50). Il titolo italiano è, chissà perché, meno amaro di quello originale (Although of course you end up becoming yourself: «Anche se, naturalmente, si finisce per diventare se stessi»), ma si sa che i nostri editor tendono a zuccherare tutto. Lo sparring partner, invece, di questo tour de force con il Genio è una garanzia. Si tratta di David Lipsky, scrittore di pregio negli States, dove nel 1986 riuscì ad attirare con i suoi racconti l’attenzione di Raymond Carver e dieci anni dopo a farsi paragonare dai critici, per il suo La fiera dell’arte, nientemeno che ad Harold Brodkey.
Fu proprio nel 1996 che Rolling Stone spedì Lipsky a seguire, novello gonzo journalist, il celebre autore di Infinite Jest in un giro di promozioni e reading. Lipsky, che stava uscendo con fatica da un «tracollo economico perfetto», investì 320 dollari in un registratore e si presentò alla porta di David, pronto ad accompagnarlo su aerei e automobili a noleggio per cinque giorni. Periodo in cui, oltre a registrare tutto su nastro, Lipsky annotò su taccuino pure molti dettagli che faranno la gioia dei fan di Wallace: la musica che ascoltava (rock tipo gli Inxs, oppure pop tipo Alanis Morissette, nonché molto di quel che trasmettevano le radio dei college), i programmi televisivi che seguiva (aveva un debole per Seinfeld e Friends), le abitudini (masticava tabacco e beveva Diet Pepsi), le domande che gli rivolgevano durante le conferenze (sempre le stesse). Ma questi, pur benvenuti, sono particolari minori. Molti scorreranno il libro alla ricerca dei grandi trend (qualcuno inconsapevole) della vita di Wallace: successo, droga, psicofarmaci, colleghi scrittori e denaro. E non rimarranno delusi.
Riguardo il successo, Wallace, che all’epoca era già negli incubi di molti aspiranti scrittori in competizione con lui, cercava di buttarla nell’understatement: «A questo reading non mi hanno lanciato ortaggi, lo considero un successo. Con Infinite Jest ho fatto abbastanza soldi per viverci un paio di anni. Altro successo». In realtà, a Wallace, uno dei pochi scrittori del momento ad avere le groupies e che la gente riconosceva per strada solo a vederne la bandana da lontano, la fama piaceva: non di rado Lipsky ce lo dipinge, tra le righe, eccitato e soddisfatto, consapevole del proprio valore. Wallace poteva permettersi di guardare dall’alto al basso persino il «troppo ripetitivo» Stephen King, «le cui opere, comunque, conosce spaventosamente bene» riferisce Lipsky. Molte le osservazioni anche sull’«amico» Jonathan Franzen e sul mondo degli agenti letterari e cinematografici.
Ma qualche conto interiore non doveva tornare nell’anima di Wallace, perché mentre mieteva pagine di culto e firmava autografi, uno dei suoi orizzonti discorsivi e fisici preferiti rimaneva, e da anni, quello dell’alterazione della coscienza: le osservazioni che Wallace fa a Lipsky su alcol e stupefacenti hanno l’inconfondibile punto di vista di un insider di lungo corso. Wallace tesse notevoli variazioni sul tema delle sue dipendenze: perché non è diventato eroinomane, perché la cocaina non gli piace, che tipo di esperienza ha avuto con il crack, la psilocibina, il tabacco, la caffeina, fino a concludere: «Per me alcol e droga sono mezzi per dimenticare me stesso, per spegnere il sistema nervoso, e non per accenderlo o stimolarlo».
A latere di tutto ciò, il gran sentiero della psicoterapia e degli psicofarmaci, cui dedicò un saggio. «Ci possono essere psicoterapie a base di sostanze chimiche, elettrochoc, sesso, celebrità. A un certo punto, ti metti a cercare qualcosa di importante nella tua vita. La domanda per me rimane: ok, ma cosa c’è dopo?». La risposta - per quanto riguarda Wallace - l’abbiamo.


Proprio di questi giorni, una sera di tre anni fa, il nostro scrittore si impiccò nel patio della sua casa a Claremont, la «città degli alberi e dei dottorati di ricerca» come la chiamano in California, «il quinto miglior posto dove vivere negli Stati Uniti», secondo una ricerca della CNN.

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