Economia

Alitalia a un passo dalla fine. Ecco le ragioni del disastro

Patuanelli si arrende: «Altri sei mesi per salvarla o si chiude». Anche molte delle nuove rotte in perdita

Alitalia a un passo dalla fine. Ecco le ragioni del disastro

Il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, ammette che Alitalia, da tempo in dissesto finanziario, potrebbe chiudere entro la metà del prossimo anno. Per salvarla «ci restano sei mesi», ha aggiunto Patuanelli che ha sostituito al Mise il compagno di partito Luigi Di Maio, vedendo sfaldarsi ogni tentativo di cordata. Per rimediare il ministro grillino annuncia una riforma del trasporto aereo e la guerra alle low cost: per salvare Alitalia «non bisogna agire solo sul perimetro aziendale. Penso alle low cost ha detto Patuanelli a il Messaggero -, agli aiuti che ricevono e che in molte situazioni danneggiano proprio Alitalia. Questo non è più tollerabile». Il ministro ribadisce la possibilità di vendere la compagnia, ma Delta e Lufthansa, uniche candidate con le Fs, restano alla finestra.

Quanto all'offensiva delle compagnie low cost, da vent'anni è stata sostenuta con denaro pubblico, in un cortocircuito che altri Paesi europei hanno saputo evitare. Il risultato è che, indebolendo Alitalia, quello che il viaggiatore ha risparmiato si è ritrovato a pagarlo, con sovrapprezzo, come contribuente. La sottovalutazione di questo scenario è uno degli errori macroscopici che hanno portato la compagnia alla crisi odierna.

Ma gli errori sono stati tanti, e vengono da lontano. La compagnia è stata vittima di sottocapitalizzazione, strategie sbagliate e incomprensioni del mercato. Negli oltre trent'anni che ci separano dalla caduta dei monopoli, il declino è stato inesorabile, con un unico esercizio chiuso in attivo. Ricostruiamo i momenti della crisi con l'aiuto di Paolo Rubino, ex top manager della compagnia e autore di un romanzo (Lo spirito del tempo, Castelvecchi editore) ispirato proprio alle vicende di Alitalia.

Un peccato d'origine risale al momento della deregulation in Europa (1986) quando ad era Umberto Nordio e azionista l'Iri, lo Stato. I cambiamenti generarono una pressione competitiva e la necessità di investimenti - quindi di capitali - che l'azionista ritardò, indebolendo la compagnia. A Nordio succedette Gianni Bisignani, che, convinto delle necessità di investire in flotta indebitò la compagnia: ma quei 500 miliardi di lire annualmente al servizio del debito furono un fardello. L'aumento di capitale arrivò, ma troppo tardi: era il 1997, ad Domenico Cempella quello dell'ultimo bilancio positivo - e arrivarono 3mila miliardi di lire, che caddero nella tagliola degli aiuti di Stato: l'Ue vietò investimenti in flotta azzoppando lo sviluppo della compagnia, che si stava avviando alla fusione con Klm, poi sfumata. Dopo anni, i ricorsi di Alitalia contro l'Ue furono accolti, ma era tardi per recuperare competitività. Francesco Mengozzi (ad dal 2001) tentò il rilancio, ma dovette affrontare la catastrofe dell'11 settembre: Alitalia ridusse l'offerta più dei concorrenti, cosa che la svantaggiò quando il mercato si riprese. Se ne approfittarono le neonate low cost, che capirono come stava cambiando il settore.

Alitalia cadde in depressione e il nuovo ad, Giancarlo Cimoli, reagì suddividendola in tante realtà autonome, con l'obiettivo di razionalizzare i processi, ma con il risultato di far perdere unitarietà a un'attività di servizio fatta di omogeneità gestionale. Si rese necessaria la prima procedura fallimentare.

Nel 2008-2009, fallita la vendita a Air France, entrarono in scena i «Capitani coraggiosi» di Cai. Si susseguirono al comando Rocco Sabelli, Andrea Ragnetti e Gabriele del Torchio: il primo e il secondo puntarono sul collegamento Milano-Roma, senza capire che il Frecciarossa lo avrebbe sbaragliato, il terzo fu l'uomo della trattativa con Etihad, individuata come il salvatore. L'Alitalia di Cai era sbilanciata sul breve e medio raggio, sottocapitalizzata; capitali e capacità furono cercati ad Abu Dhabi. Gli arabi nominarono un manager italiano, Silvano Cassano, ma il loro disegno, più che di rilanciare Alitalia, era quello di alimentare l'hub di Abu Dhabi. A Cassano succedette Cramer Ball, presentato come il risanatore di una compagnia indiana: ma a Roma il prodigio non si ripetè. A lui succedettero, nel 2017, i commissari straordinari con il compito di vendere Alitalia. In oltre due anni e mezzo non ci sono riusciti. A loro vengono rimproverate l'inerzia nelle trattative con possibili acquirenti, scelte industriali sbagliate - gran parte delle nuove rotte sono in perdita - , e una gestione incapace di tenere sotto controllo i costi, tant'è che lo stesso ministro Patuelli ha indicato le perdite in due milioni al giorno.

Peggio dei peggiori momenti della compagnia.

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