Economia

Le banche italiane studiano la "formula" di Unicredit

Segnale positivo per il sistema: la liquidità sul mercato si può trovare. Ma gli investitori chiedono garanzie

Le banche italiane studiano la "formula" di Unicredit

Il successo dell'aumento di capitale di Unicredit è un segnale positivo per tutto il sistema bancario italiano», ha detto venerdì il presidente di Intesa Sanpaolo, Gian Maria Gros-Pietro, commentando l'operazione conclusa il giorno prima con la sottoscrizione di quasi il 100% dell'offerta. Una medaglia per l'istituto di piazza Gae Aulenti ma anche un ottimo viatico per il sistema creditizio nazionale rimasto a corto di fiducia perché, come ha sottolineato lo stesso Gros-Pietro, «dimostra che le banche italiane funzionano se gestite correttamente, con obiettivi condivisibili dagli investitori».

Insomma, i soldi sul mercato per rilanciare una banca italiana ci sono. Ma solo se vengono garantite certe condizioni. Perché, dunque, Unicredit è riuscita a raccogliere 13 miliardi di euro mentre gli investitori non hanno aperto il portafoglio per il Monte dei Paschi, che a dicembre di miliardi ne aveva chiesti «solo» cinque e con la conversione dei bond subordinati in azioni era già riuscita a incassarne già tre? Sia nel caso del Monte sia in quello di Unicredit le avvertenze contenute nei prospetti delle due offerte erano simili: se l'operazione fallisce, la banca potrebbe subire degli interventi, anche invasivi, da parte delle autorità di Vigilanza. Compresa l'applicazione degli strumenti di risoluzione previsti dal decreto che ha introdotto in Italia il bail in. Ma la differenza sostanziale è che l'aumento di Unicredit era garantito da un esercito di 30 banche internazionali pronte a farsi carico dell'eventuale inoptato, quello di Mps no. Le banche straniere che erano disposte a proporre le nuove azioni senesi ai loro clienti non avevano, infatti, mai sottoscritto l'impegno ad aprire la rete di protezione. C'è poi una questione di reputazione. Il Monte è stato controllato per decenni dalla politica che ne nominava i dirigenti e che ha condizionato l'intera gestione, a cominciare da quella dei prestiti agli amici che poi si sono deteriorati. «Anche Unicredit ha avuto i suoi scheletri nell'armadio, non a caso gran parte delle sofferenze che oggi deve vendere sono conseguenza di prestiti fatti prima del 2011 o ereditate dall'acquisizione di Capitalia, ma all'estero è vista come una banca più paneuropea che italiana e soprattutto non ha la stessa, forte connotazione politica di Mps», spiega al Giornale l'operatore di un fondo di investimento inglese. Un simile groviglio fra finanza e territorio potrebbe tenere lontano gli investitori anche dalle promesse spose Popolare Vicenza e Veneto Banca, soprattutto sapendo che lo Stato ha pronto il paracadute da 20 miliardi cui ricorrere in caso di ricapitalizzazione precauzionale.

Nel caso di Unicredit, inoltre, l'ad Jean Pierre Mustier ha deciso di mettere in campo una massiccia operazione di «pulizia» per non rischiare di bussare nuovamente al mercato nei prossimi anni (il 2016 si chiuderà con quasi 12 miliardi di perdite). Mentre per Siena c'era anche il timore che 5 miliardi potessero non bastare, tanto che poi la Bce ha alzato effettivamente l'asticella del fabbisogno di capitale a 8,8 miliardi. Per le venete l'ammontare necessario a sostenere le nozze non è stato ancora indicato da Francoforte e pesa anche l'incognita su cosa farà il fondo Atlante che nei due istituti ha già impegnato 3,4 miliardi. «Dobbiamo tornare ad essere un soggetto credibile ed affidabile nell'ambito della raccolta del risparmio», ha detto l'ad di Pop Vicenza, Fabrizio Viola. Credibilità, affidabilità ma anche una maxi pulizia.

Ecco quello che chiede il mercato, come insegna la «lezione» di Unicredit.

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