Economia

«Il Brasile verso il capolinea se non mette a posto i conti»

L'esperto Milton Rangel: siamo un Paese rischioso. Con questi tassi imprese condannate. E l'inflazione morde

Patrizia TorchiaRio de Janeiro «Il Brasile vive attualmente la più grave crisi economica dall'inizio della sua era repubblicana. Le previsioni di crescita sono negative per il prossimo anno e per il 2017». Milton Rangel fornisce consulenze finanziarie a diverse multinazionali del settore petrolifero del Brasile. Conosce bene le radici e i contorni della crisi politico-economica che sta attraversando il Paese e sa bene qual è il limite da non oltrepassare. L'inflazione ha superato il 10%, il Pil continua cadere, l'agenzia di rating Moody's ha collocato il Paese in «prospettiva negativa» e Fitch lo ha declassato nella categoria spazzatura. «Per capire questa crisi dobbiamo fare un passo indietro e tornare al modello economico proposto dall'ex presidente Lula. Un modello che ha portato migliorie evidenti nel breve termine e danni significativi nel lungo termine», spiega Rangel. Quelle politiche economiche basate sull'interventismo pubblico hanno aiutato le famiglie a uscire dalla miseria, a migliorare il proprio tenore di vita anche attraverso il congelamento dei prezzi dell'energia, il taglio dei tassi d'interesse, una più diffusa scolarizzazione. Ma lo Stato ha commesso un errore fatale: ha continuato a spendere più di quanto guadagnava, senza intervenire sull'inflazione. Con Dilma Roussef si è cercato di rimediare, alzando i tassi. Ma ciò ha aumentato i debiti di famiglie e imprese. Anche di quelle pubbliche. «Basti pensare - ricorda Rangel - al colosso petrolifero Petrobrás che registra il maggior debito corporativo del pianeta: il 10% del Pil del Paese. Gli investitori hanno perso interesse nel Paese e per questo spostato i capitali all'estero».Il carico da 90 ce l'ha messo l'inchiesta per corruzione su Petrobrás. «Le imprese coinvolte nello schema sono state danneggiate, non solo la Petrobrás. Quelle di costruzione e ingegneria principalmente. Sono in una lista nera che proibisce loro di firmare futuri rinnovi contrattuali con la Petrobrás. E questo per loro significa perdere tutto». Ma ce n'è anche per l'industria che fa fatica ad affrontare il recente aumento dei tassi ed è costretta a tagliare posti di lavoro. Secondo Rangel serve un assestamento serio dei conti pubblici. Era stato previsto per il 2015 ma di fatto non è avvenuto. «Dobbiamo recuperare la fiducia degli investitori e della gente. Più tempo passa e più difficile sarà la ripresa. Oggi abbiamo un Paese senza governo e nel peggiore stato economico possibile: siamo in stagflazione».L'agenzia di rating Fitch ha dato il colpo finale. Il rating brasiliano è ora junk, spazzatura. «Il posizionamento di Fitch dipendeva dalla divulgazione della meta fiscale del Brasile per il 2016. Levy aveva assicurato un superavit dello 0,7% del Pil, ma poi Dilma Roussef ha pensato bene di abbassare il tiro e puntare allo 0,5%. E Fitch ha reagito. Il declassamento è negativo non solo per il governo Roussef, ma per il Paese intero. Le imprese brasiliane, quelle che generano posti di lavoro, hanno accumulato debiti più cari dopo questo giudizio. Gli azionisti di queste imprese esitano ad investire perché per lavorare in un Paese cosi rischioso hanno bisogno di ritorni maggiori e garanzie e se queste garanzie non arrivano, smettono di investire.

Oggi il Brasile è un Paese rischioso e inospitale».

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