Economia

Caos libico, crisi, trivelle: i pescatori siciliani si arrendono

Nel Mediterraneo sconvolto da guerre e morti, la pesca sembra ormai per qualcuno quasi un lusso che non ci si può permettere, considerate le difficoltà e i guadagni sempre più esigui

Un peschereccio
Un peschereccio

Nel Mediterraneo sconvolto da guerre e morti c’è tutto un mondo che passa spesso in secondo piano: quello della pesca. Sembra una polveriera, il Mare Nostrum, in cui si sovrappongono diversi e complessi problemi che gravano sulle spalle di intere famiglie, oltre che su quelle dell’intero Paese.

La Sicilia è una delle aree in cui fino a pochi anni fa era proprio la pesca il motore economico di tanti centri. Oggi, nel silenzio quasi totale, si assiste invece alla sua progressiva distruzione, con serie ripercussioni sul Pil dell’Italia e sul Pil della vita delle persone. E così quell’attività ittica dal tradizionale sapore romantico e misterioso sembra ormai per qualcuno quasi un lusso che non ci si può permettere, considerate le difficoltà e i guadagni sempre più esigui.

Ma quali sono le cause dell’impoverimento? Tanti i problemi che generano la crisi della pesca in Sicilia (e non solo): i cervellotici regolamenti comunitari, il caos in Libia che danneggia la pesca del gambero rosso, i pericoli legati alla proliferazione delle trivelle.

Il Mar Mediterraneo sembra ancora una volta il campo di battaglia per la conquista di rilevanza strategica dei Paesi e per guadagni economici. Prendiamo ad esempio la questione libica; è una delle più complesse e risale agli anni di Gheddafi. Nel 2005, infatti, il Colonnello, ha esteso la sovranità della Libia fino al limite di 74 miglia marine dalla costa, in barba al diritto internazionale che ne prevede 12. In tal modo il Paese africano si è impossessato delle zone più pescose, in primis quelle più ricche di gambero rosso. Il risultato? Negli ultimi anni sono stati 130 i pescherecci sequestrati da unità militari navali di vari Paesi nord africani e oltre 350 pescatori sono finiti nelle carceri tunisine, libiche ed egiziane. Per non parlare dei danni economici: 30 milioni di euro circa pagati tra multe, riscatti e ammende varie.

E, ancora, sequestro del pescato, delle reti e delle attrezzature con perdite stimate in oltre 60 milioni di euro. Già, perché l’indotto del settore è potenzialmente notevole e riguarda anche il comparto dell’esportazione e della trasformazione. Per le condizioni di lavoro, infatti, alcune aziende hanno cominciato ad avere problemi, tanto che acquistano grosse partite di sarde e acciughe provenienti dal Tirreno o dall'Adriatico, o addirittura da Spagna e Francia, con un considerevole aumento dei costi. Altre ditte, invece, hanno chiuso e hanno preferito delocalizzare la produzione in Tunisia, Algeria e Marocco. È stato allora che i pescatori italiani hanno cominciato a lanciare il grido d’allarme, ma per qualcuno (soprattutto pescatori in proprio o di piccole compagnie) era già troppo tardi. E così molti gettano la spugna. Come Rosario, ex pescatore siciliano doc di 61 anni. “Sarò pescatore per tutta la vita, ma ora non riesco più a viverci”, rivela. “Il primo colpo è stata la crisi economica - afferma Rosario - poi è venuta l’Europa a introdurre nuovi regolamenti con poco senso che ci hanno danneggiato. Alla fine eravamo diventati troppi pescatori con troppo poco pesce in angoli di mare”.

È il destino del Mediterraneo, sfruttato e bistrattato dopo centinaia di anni di splendore.

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