Economia

Un capitalismo da piccolo mondo antico

In Italia resiste il controllo familiare. E lo Stato pesa per un terzo

Rodolfo Parietti

Un capitalismo sclerotizzato, sempre ancorato a due capisaldi inossidabili: o al modello di controllo familiare, oppure alla presenza dello Stato-azionista, talvolta anche padrone. Se il tramonto dei patti parasociali marca un segno di discontinuità rispetto al passato in cui appariva vitale la tessitura di alleanze, per il resto l'ultimo rapporto Consob sulla corporate governance riflette vizi antichi, duri a morire. Con ricadute anche sulla consistenza della nostra Borsa. Il confronto con il 2007, quando le oltre 700 società quotate capitalizzavano più di 700 miliardi di euro, è impietoso: nel 2018 le presenze si sono ridotte a 231 per un valore di poco superiore ai 260 miliardi.

Certo il lungo periodo della Grande recessione, quella innescata dal virus dei subprime e poi esplosa con la crisi del debito sovrano, ha avuto un ruolo nel dimagrimento di Piazza Affari; così come le innumerevoli acquisizioni di matrice straniera di aziende che avrebbero avuto tutti i numeri per essere quotate; ma, di sicuro, ha finito anche per pesare proprio la resistenza verso il mercato per paura di perdere le redini societarie. E ciò nonostante la Borsa italiana sia comunque un mercato blindato dal controllo familiare di ben 145 società, con una quota media posseduta dal singolo azionista pari al 47,7% (in crescita rispetto al 46,2% del 2010) rispetto al 40% in mano al mercato. Un simile sbilanciamento ha ovvie implicazioni proprio sulla governance, e potrebbe rappresentare un elemento di freno a investire da parte degli investitori istituzionali. Dal 2010 la loro presenza è infatti nettamente calata, e ora appena il 26% delle società conta un investitore istituzionale tra i soci rilevanti. Il dato, sottolinea il rapporto dell'organismo di vigilanza, «conferma da un lato la riduzione della presenza di investitori istituzionali italiani e dall'altro l'aumento della presenza di quelli esteri».

Ancora consistente è inoltre il peso della mano pubblica. Più di un terzo della capitalizzazione fa capo allo Stato, che figura tra l'altro come azionista di riferimento in 23 imprese di grossa dimensione. Per alcuni è una presenza ancora troppo invasiva, per altri un modo necessario per mantenere capacità di intervento su settori in cui è in ballo l'interesse nazionale. Cambiano invece le dinamiche legate ai patti parasociali, che paiono avviati verso il tramonto: dai 51 che erano quasi 10 anni fa, si sono ora ridotti a 22.

Infine, il pink power in azienda: la presenza femminile ha raggiunto il 36% del totale degli incarichi di amministrazione e il 38% in quelli di componente del cda.

Due record storici, ma la strada verso la parità resta lunga.

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