Economia

Carige rischia di finire come le venete

La banca si aggrappa al «mattone» per evitare un buco di capitale da 800 milioni

Camilla Conti

«Non ci aspettiamo che altre banche abbiano bisogno di aiuti di Stato. A Carige sono stati richiesti numerosi aggiustamenti da parte delle autorità europee, e si sta adeguando, questa è una buona notizia». Sarà, ma lo «state sereni» trasmesso lunedì dal ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, non sembra convincere Piazza Affari, dove il titolo dell'istituto ligure è in caduta libera e ieri ha perso un altro 3,4% crollando al nuovo minimo storico di 0,17 euro. Solo nell'ultimo mese il calo è stato del 29,5 per cento. Gli allarmi, insomma, continuano a suonare.

Nemmeno l'arrivo del nuovo ad Paolo Fiorentino ha frenato la caduta delle quotazioni. Nelle sale operative ora ci si chiede se la soluzione adottata per le banche venete rappresenta un'eccezione o diventerà un trend. E soprattutto, quali sono le reali condizioni del paziente genovese. Lunedì 3 luglio Fiorentino dovrà presentare risposte convincenti sul tavolo del cda e poi inviarle a Francoforte che attende i dettagli sulla valutazione e valorizzazione degli attivi dell'istituto. Tra questi figurano anche gli asset immobiliari. Si tratta di un patrimonio che va dagli imponenti complessi sulla Riviera ligure ereditati con i vecchi affidamenti della Cassa di Risparmio di Savona agli uffici di rappresentanza nel centro di Londra.

Quanto ai crediti deteriorati, la settimana scorsa sono stati ceduti 948 milioni di npl ma Carige deve liberarsi di un'altra zavorra da 2,4 miliardi per soddisfare le richieste della Bce. Su questo fronte prende sempre più corpo l'ipotesi del «modello Unicredit», cioè la costituzione di un consorzio partecipato al 51% da investitori istituzionali e operatori del settore e al 49% da Carige, cui cedere gli npl in modo che la banca possa partecipare anche ai benefici derivanti dal loro recupero. Il problema è che le perizie sui crediti fatte dall'advisor Prelios sarebbero discordanti con i dati in possesso della banca. Lo snodo è centrale perché dal prezzo e dalla quantità di sofferenze vendute - strettamente collegato al valore degli immobili messi a garanzia - dipenderà l'importo dell'aumento di capitale inizialmente stimato attorno ai 450 milioni ma che ora rischia di lievitare fino a 800 milioni. Con l'auspicio di non dover convertire i bond subordinati in gran parte venduti a Generali nel 2008: la compagnia assicurativa, suo malgrado, salirebbe al 17-18% del capitale, diluendo così la posizione di Vittorio Malacalza. Che non vuole nè perdere il controllo, nè svendere i crediti. Cosa succederebbe però se l'asticella venisse improvvisamente alzata da Francoforte? Nel caso in cui la Bce considerasse la banca comunque solvibile, lo Stato potrebbe giocarsi la carta della ricapitalizzazione precauzionale ma i 20 miliardi stanziati con il decreto salva banche saranno presto esauriti per Siena e per le due ex popolari. Se invece il «buco» genovese diventasse una voragine, come nel caso delle venete, l'istituto ligure potrebbe non essere considerato «sistemico» dalla Commissione Ue che proprio per questo potrebbe consentire la liquidazione ordinata.

Nel frattempo, l'altra «sorvegliata speciale» Mps ha raggiunto con Atlante 2 un accordo di massima per lo smaltimento dei 26 miliardi di sofferenze al prezzo di 5,5 miliardi.

La chiusura del dossier venete ha infatti estinto l'impegno da 450 milioni del fondo per gli npl di Vicenza e Montebelluna, lasciando in cassa circa 1,6 miliardi.

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