Economia

Il caso Popolari diventa il caso Serra

L'amico di Renzi ha investito nel settore quando Matteo è diventato premier. La Consob vuole saperne di più

Il caso Popolari diventa il caso Serra

di Marcello Zacché

Con la riforma voluta e varata da Matteo Renzi «mettiamo le Banche Popolari nelle mani di speculatori, fondi esteri. Svendiamo loro il 25% dell'attività bancaria italiana», ha detto al Giornale il presidente della Banca Popolare di Vicenza, Gianni Zonin. E tra questi c'è anche un fondo di Algebris, il gruppo finanziario londinese di Davide Serra, iscritto alla sede britannica del Pd, amico e finanziatore del premier fin dalla prima ora, noto anche per una holding alle Cayman Island e per aver inneggiato all'abolizione del diritto di sciopero. Facendo insorgere Susanna Camusso.

Ebbene Serra, dopo essersi negato per qualche giorno ai media che lo cercavano, ha infine dichiarato da Londra, al Sole 24 Ore , che «investiamo sulle banche popolari» e in particolare «abbiamo una specifica grande posizione», senza rivelare di quale banca si tratta. Nello stesso tempo, però, il finanziere ha anche detto di investire nel settore popolari «dal marzo 2014», aggiungendo successivamente, tramite un portavoce, che «Algebris Investments non ha fatto alcun acquisto di banche popolari nel 2015». Precisazione necessaria perché il punto è che la Consob sta indagando su anomali ordini di acquisto partiti da Londra poco prima del 16 gennaio scorso su alcune banche popolari.

Quel venerdì, a mercato chiuso, sono circolate indiscrezioni sul varo da parte del governo di una riforma per l'eliminazione del voto capitario. Riforma confermata nel week-end. E lunedì 19, alla riapertura della Borsa, le azioni delle popolari quotate sono schizzate all'insù e dopo rialzi a due cifre hanno chiuso fortissime: Banco Popolare +8,3%, Popolare di Milano +14,9%, Bper +8,5%, Ubi +9,7%, Popolare Etruria +8,2%. Voto capitario significa la regola di «una testa un voto»: chi ha una sola azione conta come chi ha il 2, il 3 o il 5% della banca, non fa differenza. È la regola che rende le popolari diverse e ad azionariato diffuso tra i piccoli soci. Quindi, senza voto capitario le azioni valgono molto di più.

Ovvio che il pensiero più malvagio sia allora andato ad Algebris, anche perché il fondo «Global Financials» ha registrato, in gennaio, un'impennata delle sue quotazioni. Impennata che però Serra ha spiegato con l'acquisto azzeccato di titoli di una società inglese (Quindell) che il mercato riteneva invece pessimi. Fine della storia? Ce lo dirà la Consob.

Di certo, da un lato c'è un sistema finanziario che, legittimamente, non si pone obiettivi diversi da quello della massimizzazione del profitto. Mentre, dall'altro, ci sono delle regole di correttezza e delle leggi ( insider trading ) da rispettare. In mezzo una zona più o meno grigia di cui è comunque lecito sottolineare opacità e singolari coincidenze.

Come una riforma bancaria di grande peso, uscita prima come indiscrezione, poi annunciata ma senza aver sentito l'associazione di categoria; facendo guadagnare molti milioni in pochi minuti a chi aveva le popolari in portafoglio.

Una riforma che riguarda il settore più sindacalizzato di tutte le banche; fortemente voluta da un premier che ha preso di mira proprio i sindacati; un premier salito a Palazzo Chigi nel febbraio 2014; amico di un finanziere-gestore che lo finanzia; che spera nell'abolizione dei sindacati; e che ha iniziato a comprare azioni delle popolari dal marzo 2014.

Un finanziere ostentatamente vicino al premier che non nasconde la propria propensione al profitto, né il diritto a fare operazioni spregiudicate, come prendere posizioni scoperte al ribasso sui titoli di Mps, la banca italiana maggiormente in difficoltà, dopo averne criticato le mosse effettuate per salvarla.

Un premier il cui braccio destro in politica, la ministra Maria Elena Boschi, è figlia del vicepresidente della Banca Popolare dell'Etruria; una banca i cui titoli, nella settimana del 19 gennaio scorso, sono schizzati all'insù del 65%.

Fine della storia.

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