Economia

Che bluff lo Sviluppo: 80 miliardi di promesse senza un euro in cassa

Il decretodi Passera & soci è in realtà una bolla mediatica. Ma il governo lo imporrà a colpi di fiducia scavalcando l'Aula

Che bluff lo Sviluppo: 80 miliardi di promesse senza un euro in cassa

Il governo Berlusconi cadde lo scorso novembre sull’impossibilità (causa Tremonti) di mettere a punto un organico decreto sviluppo, già allora considerato fondamentale per l’economia italiana in tempo di crisi e di spread impazziti. Otto mesi dopo, con il governo dei tecnici, si ripresenta la stessa situazione con gli stessi spread, ma con una maggiore comprensione delle cause della crisi (l’impotenza europea).

Oggi, ci sta provando il super ministro Passera. E questa volta non c’è nessuno né all’economia né alle finanze che gioca contro e il presidente della Repubblica è prontissimo a dare il via libera, purché gli arrivi un testo (evidentemente segno dei tempi). E i giornali tutti a tifare sviluppo, magari prendendo lucciole per 80 miliardi di lanterne.

Tutto bene, dunque. Non proprio. Anche questa volta soldi non ce ne sono, e il recente e tanto atteso provvedimento del governo sullo sviluppo «Misure urgenti per la crescita del Paese», appare, a leggere le anticipazioni di stampa, più come una bolla mediatica che altro.

In primo luogo sorprende come, a una settimana di distanza dalla sua approvazione in Consiglio dei ministri, del decreto non ci siano altro che indiscrezioni e voci di corridoio. Una ridda di parole dette e contraddette che non aiutano a capire ma che, al contrario, danno il senso di una visione confusa su cosa sia urgente e su come sia necessario intervenire. In secondo luogo è oramai evidente un sostanziale problema di architettura dell’intervento. Come ci insegna la saggezza dei vecchi a dare troppi significati alle cose si finisce per non darne nessuno. E questo decreto sembra scritto da troppe mani (molte delle quali incompetenti...) e sembra contenere tante (anche in questo caso troppe?) disposizioni tra loro non organiche e non rispondenti a un vero disegno di sviluppo.

L’odore di lobbies è molto forte, delle cattive burocrazie, delle rese dei conti. Non si tratta di valutare solo i singoli passaggi ma l’impianto nel suo complesso e le motivazioni che ne sono alla base. Infine, c’è un problema di metodo. Un decreto legge ha validità provvisoria, limitata a 60 giorni. Se il Parlamento, in questo lasso di tempo, non riesce ad approvare la legge di conversione, il decreto legge perde la sua efficacia con effetto retroattivo. Il decreto è dunque uno strumento potente ma delicato che, per poter scavalcare la titolarità legislativa esclusiva del Parlamento, impone siano rispettati i necessari presupposti di necessità e urgenza dell’intervento.

Ora, nel decreto si individuano chiaramente alcune misure strutturali. Molte di esse sono indubbiamente necessarie. Resta però tutta da dimostrare un’urgenza tale da giustificare l’immediata decretazione governativa: dalle misure per la giustizia civile alla semplificazione della governance di Unioncamere, dalle disposizioni in materia di idrocarburi alla revisione della legge fallimentare, dall’Agenzia per l’Italia digitale alle iniziative volte a favorire l’occupazione giovanile nel settore della green economy.

Nei 61 articoli e nelle quasi 200 pagine dello schema in circolazione è senz’altro ravvisabile il tentativo di dare risposta a molte delle criticità del Paese ma, contestualmente, restano forti dubbi sulle modalità prescelte per dare soluzione a questi problemi. L’articolo 19, ad esempio, istituisce l’Agenzia per l’Italia digitale, alla quale sarà affidato il compito di dare unitarietà all’attuazione agli interventi che dovrebbero essere oggetto del quadro di azione in materia di innovazione digitale. Come essere in disaccordo su un intervento che vuole dare unitarietà a una politica, quella dell’innovazione, che a causa della sua trasversalità e della conseguente frammentazione delle competenze spesso stenta a trovare percorsi efficaci di attuazione? Ma, come spesso accade, anche questa volta, il diavolo sta nei dettagli. Infatti, se da un lato all’Agenzia saranno assegnate le competenze relative alla regolazione, al coordinamento e alla diffusione delle iniziative in materia di  e-government, dall’altro non c’è traccia nel decreto del trasferimento al nuovo soggetto delle competenze necessarie per attuare l’Agenda digitale: reti di telecomunicazione e riduzione del digital divide tecnologico, digitalizzazione del sistema formativo ed  e-commerce.

Tolto il ricco boccone delle gare Spc, affidato - guarda caso - alla gestione di Consip, in pratica il nuovo soggetto erediterà solamente le competenze che, fino a oggi, erano esercitate dalle strutture che dipendevano dal ministro dell’Innovazione: il Dipartimento per la digitalizzazione della Pa e l’innovazione, DigitPa e l’Agenzia per la diffusione delle tecnologie per l’innovazione. Con l’ulteriore aggravante che, nel caso in cui il Parlamento non converta il decreto in legge entro 60 giorni, come detto, la decadenza retroattiva degli effetti del decreto inevitabilmente confliggerà con quanto già avvenuto proprio in quei 60 giorni. A fronte di ciò, quello che cambia veramente è il modo in cui è organizzata la struttura di responsabilità che savraintenderà all’operatività del nuovo soggetto. Infatti, se per un verso l’Agenzia nascerà contraddistinta da un profilo tecnico che porta ad accentrare tutti i poteri di gestione in capo al direttore generale, la struttura di potere che sovraintende alla sua azione sarà molto articolata.

Saranno ben tre i Ministri da cui l’Agenzia dovrebbe dipendere (e forse se ne aggiungerà un quarto...): quello con le deleghe per l’Innovazione, quello dello sviluppo economico e quello dell’istruzione, università e ricerca. Così, mentre non è vero che con l’Agenzia si istituirà un luogo unitario di attuazione delle  policy in materia di Agenda digitale (il sistema delle competenze che non riguarda l’e-government resterà infatti immutato), l’unica cosa di rilievo che produrrà il provvedimento sarà l’annullamento, di fatto, dei poteri (peraltro già limitati) di quello che era l’unico ministro competente per l’innovazione, i cui poteri verranno frammentati e assegnati a più decisori.

Insomma, altro che razionalizzazione: la nuova Agenzia nasce come un arlecchino inesorabilmente servo di troppi padroni. Un altro articolo interessante è il 24, che prevede un contributo sotto forma di credito di imposta per le nuove assunzioni di profilo altamente qualificato (dottori di ricerca e laureati in discipline tecniche e scientifiche) con un limite di 200mila euro annui per impresa. Immaginando che la media del contributo sia di 100mila euro per impresa i 50 milioni di euro stanziati per il 2013 vedrebbero coinvolte solo 500 imprese.

E per le altre? Che ne sarà di oltre 4 milioni di imprese escluse - di fatto - dal provvedimento? Basterà un intervento su 500 imprese per rilanciare l’intero sistema produttivo italiano? In ogni modo si precisa che il Ministero per lo sviluppo economico, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze per la gestione di questa misura potrà avvalersi di società in house o di enti in possesso dei necessari requisiti tecnici. Altra lotta di potere? Tra i più innovativi elementi del decreto vorrei ricordare il 58 nel quale viene istituito un fondo per il finanziamento dei programmi nazionali di distribuzione di derrate alimentari alle persone indigenti nel territorio della Repubblica. Certo, è doveroso donare del cibo a chi ha fame ma ci è stato anche insegnato che la carità deve essere un fatto privato.

Organizzare e promuovere la crescita della donazione di cibo da parte di organizzazioni caritatevoli è operazione sana e giusta ma il Fondo cosa c’entra? In che misura si tratta di un provvedimento urgente per la crescita? E perché non un fondo per la donazione di vestiti, o in favore di terremotati, o dei senza casa, o per l’assistenza ai ammalati cronici o ai disabili? Risparmio ai lettori, per il momento, un’analisi puntuale del decreto, anche perché ci sarà modo di farla più avanti.

Quanto detto mi sembra sufficientemente significativo. Un consiglio, credetemi. Forse è giunto il momento di porsi qualche domanda sull’azione del governo e sull’impianto complessivo offerto alla crescita del Paese. Come hanno detto i «sovversivi» commentatori del Wall Street Journal solo pochi giorni fa, il Decreto Sviluppo sembra voler prosciugare il lago di Como utilizzando un mestolo e qualche cannuccia. Un’ultima considerazione, non è che i decreti sviluppo portino male ai governi in questa triste congiuntura economica e politica?

Il governo Monti rifletta seriamente: può forzare la propria maggioranza, può violentare il Parlamento con inutili voti di fiducia, può ingannare l’opinione pubblica, ma la realtà si vendica sempre. L’economia italiana non ne può più di tante e inutili tasse, di tante inutili promesse e di tanti impegni mancati.

La misura è colma.

Commenti