Economia

"Fondi padroni in Borsa. I big aprano al dialogo"

Il partner di Morrow Sodali: "Presto gli attivisti anche in Italia. Noi colleghiamo vertici e base"

"Fondi padroni in Borsa. I big aprano al dialogo"

L'anno che si è appena chiuso è stato uno spartiacque per le società italiane quotate in Borsa. I cosiddetti salotti buoni, le scatole cinesi, i nocciolini duri hanno perso la loro forza dominante: nelle grandi banche, così come nell'industria o nei colossi controllati dal Tesoro, gli azionisti di riferimento non possono più evitare di fare i conti con i grandi fondi. O rischieranno di vedersi bocciate in assemblea sia singole proposte, sia le liste di amministratori. Cosa cambierà nei poteri forti? «Che dovranno imparare a dialogare maggiormente con tutti gli azionisti e in special modo con i fondi», ci dice Andrea Di Segni, managing director e tra i fondatori di Morrow Sodali, il maggior provider nei servizi di consulenza alle società quotate.

In dicembre, l'assemblea del Credito Valtellinese senza la sollecitazione dei piccoli soci ha rischiato di non raggiungere il quorum del 20%. Che lezione è stata?

«Ci ha insegnato che la caratteristica delle ex popolari di avere un azionariato molto diffuso può diventare un elemento chiave. Creval è quotata e ha il 50% di soci internazionali, ma è stata la vecchia spina dorsale di queste banche che ha risposto in maniera decisiva a sostenere un piano complesso con un aumento che è il triplo della capitalizzazione. Quindi significa che il vecchio azionariato è ancora importante per le ex popolari e forse anche per le tante altre società che hanno molte migliaia di soci retail».

E anche delle società come la sua: dica che lavoro fa.

«Forniamo una consulenza strategica alle società quotate, non solo su governance, remunerazione e sostenibilità, ma anche per rafforzare e garantire il dialogo costruttivo con tutti i soci: non solo il grande fondo come Blackrock, ma anche il piccolo azionista. Aiutiamo il management a condividere con i soci la strategia e il modello di governo societario che dovrebbe garantirne l'esecuzione».

Ed è diventato un servizio necessario? Cosa è cambiato negli ultimi 10-15 anni?

«Morrow Sodali nel 2007 aveva solo 6 clienti in Italia, oggi ne ha oltre 40, rispetto ai circa 700 nel mondo, e questo dimostra i benefici del nostro ruolo. Condividere le strategie con i fondi o utilizzare la proxy solicitation (la sollecitazione a dare deleghe per il voto, ndr), crea un dialogo diverso e proficuo con gli investitori, e questo spinge i fondi a valutare meglio le società. Inoltre negli ultimi 6-7 anni il peso specifico degli istituzionali è più che raddoppiato e rende necessario questo dialogo. Se fino al decennio scorso non esistevano rischi o quasi di bocciatura delle delibere, oggi è tutta un'altra storia».

Peso specifico?

«È aumentato per due motivi: la riduzione degli azionisti di riferimento e dei cassettisti, che da tempo, complice prima la crisi economica poi quella delle banche, hanno preferito dare i loro soldi in gestione. Guardiamo per esempio quanti azionisti avevano le grandi spa quotate 10 anni fa e quanti ne hanno oggi».

In effetti dal 2001 al 2017 Eni è passata da 1,8 milioni a 300mila soci; Enel da 3 milioni a 1. Tutte azioni passate ai fondi e che ora arriveranno in assemblea. Il retail è destinato a sparire?

«Proprio no, anzi. Lo dimostrano le ex popolari e il fatto che ci sono società quotate tra le prime dieci con 3-400mila azionisti retail che valgono il 5-10% del capitale. E quanto vediamo in Francia, Spagna o UK mostra che il retail è importante e può tornare a essere un valore se gestito strategicamente. Il retail è uno dei trend dei prossimi 3-5 anni».

Quali sono i punti, le tematiche assembleari che più interessano ai fondi?

«Di sicuro gli stipendi dei manager e i cosiddetti piani di incentivazione a lungo termine. Poi ci sono i rinnovi, con il rischio di bocciatura per le liste presentate dai grandi soci. Anche i nuovi modelli di governance, come il monistico adottato da Intesa Sanpaolo, sono cambiamenti positivi che dimostrano un avvicinamento al mercato e sono molto apprezzai dai fondi».

Ma cosa vogliono i fondi?

«Gli investitori istituzionali non vogliono decidere come sia composto un cda, o le sue competenze. Ma si aspettano che il consiglio o i soci mettano in campo quel gruppo eterogeneo di amministratori con le competenze appropriate per sviluppare il piano strategico. Importante sarà il parere di orientamento e la cosiddetta diversity policy, quel documento che presenterà il cda uscente. Le società dovranno indicare quali sono le diversità necessarie perché il board eserciti le sue prerogative. Questi sono i documenti letti dagli investitori prima di andare in assemblea».

La lista del cda (appena introdotta da Unicredit) è una buona idea?

«È uno strumento molto positivo e ben voluto dagli investitori, che reputano il cda l'organo giusto per individuare gli amministratori pià adatti. Rispetto al passato, questo ruolo attivo del cda rassicura molto gli investitori».

I fondi istituzionali non sono interessati alla gestione. Ma quelli attivisti invece sì. Che differenza c'è?

«Gli attivisti individuano tematiche che rappresentano un disvalore e che, se cambiate, possono generare una crescita importante del titolo. E il grande cambiamento negli ultimi 3-5 anni è che si è passati dall'attivismo puramente finanziario a quello interessato alla governance e in particolare al cda e il suo ruolo».

Arrivano anche in Italia?

«Il nostro è un mercato ancora non molto esplorato. Casi ci sono stati, solo in situazioni straordinarie, ma nel futuro anche l'Italia diventerà un mercato con numerose opportunità di valore non espresso. E in questo caso l'organo che può opporsi all'attivista è proprio il cda. Gli unici alleati del cda saranno i fondi di lungo termine e forse anche i piccoli azionisti retail».

Vedremo già nel 2018 la prima scalata attivista?

«Non so se potrà avvenire nei prossimi 12 mesi, ma anche in Italia ne sentiremo presto parlare.

E l'importante sarà essere pronti a rispondere strategicamente e velocemente».

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