Economia

L'euro vola verso 1,20 dollari Draghi costretto a tifare Usa

Con la Bce che tace sul Qe, cambio al top da gennaio '15 Ma i dati americani sul lavoro possono cambiare tutto

L'euro vola verso 1,20 dollari Draghi costretto a tifare Usa

Il mutismo sincronizzato di Fed e Bce su tassi e Quantitative easing, durante il simposio di venerdì scorso a Jackson Hole, ha riportato i rapporti di cambio tra euro e dollaro su livelli non visti da gennaio 2015. La moneta unica ha sfiorato ieri quota 1,20 (top a 1,1965), e non pochi puntano su una sua possibile arrampicata nel breve fino alla vetta di 1,21. L'assenza di indicazioni sulle politiche monetarie di eurozona e Usa sembra in effetti poter favorire un ulteriore indebolimento del biglietto verde, urticante per la Bce per un duplice motivo: complica l'export e - soprattutto se dovesse interrompersi il deprezzamento del petrolio (2,5% ieri, a 46,68 dollari il barile) - può iniettare tossine deflazionistiche. Finendo così per complicare l'exit strategy dalle misure straordinarie.

Rispetto a come si era comportato solo alcune settimane fa, al summit nel Wyoming Draghi si è astenuto dal manifestare preoccupazione per il rafforzamento dell'euro. L'intenzione, probabilmente, era quella di non fornire ai mercati il benché minimo indizio sulle prossime mosse. Ma la sostanza non cambia: l'Eurotower vede come una minaccia il greenback svalutato sia per effetto della finora inconcludente politica economica di Donald Trump, sia a causa dell'allontanarsi di una stretta negli Usa. Non solo il rialzo di settembre dei tassi non è più considerata un'opzione spendibile, ma c'è chi azzarda che la Fed non si muoverà prima del 2018. Escludendo un aumento del costo del denaro nell'eurozona - mossa che sarà messa in cantiere non prima di aver mandato il Qe in soffitta - , per la Bce l'unico modo per raddrizzare il cambio sarebbe quello di scoprire le carte sul tapering. Alla riunione del prossimo 7 settembre, Draghi non potrà farlo malgrado stiano crescendo le pressioni da parte della Bundesbank, che in un recente studio ha sottolineato l'inefficacia del piano di acquisti sul fronte dell'inflazione. All'interno della banca centrale la discussione su modi e tempistiche di rottamazione del Qe è infatti ancora in alto mare e dovrebbe cominciare solo in autunno. E il mercato valutario, come detto, non rende le cose più facili. Nella migliore delle ipotesi, il piano potrebbe prendere forma solo tra ottobre e novembre, a ridosso della scadenza naturale di dicembre del bazooka monetario.

Draghi, insomma, non sembra aver cartucce da sparare, al punto da essere costretto a sperare in qualche buona notizia in arrivo dall'America in una settimana densa di appuntamenti macro. Le danze si aprono oggi con la fiducia dei consumatori Usa, cui farà seguito domani la seconda stima sul Pil a stelle e strisce fra aprile e giugno. Ma si comincerà a far sul serio tra giovedì (inflazione Usa) e soprattutto venerdì, quando arriveranno le indicazioni sul mercato del lavoro americano.

Le stime parlano di 180mila nuovi posti creati in agosto contro i 209mila di luglio e di un aumento dello 0,2% del salario orario medio: numeri superiori alle previsioni potrebbero rimescolare le carte sulle strategie della Fed e raffreddare quindi l'euro.

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