Economia

La lezione di Caprotti

La lezione di Caprotti

«Capisco chi si compra uno yacht di 16 metri ma suvvia perché acquistarne uno di 100». Così parlò Bernardo Caprotti, patron di Esselunga, scomparso da pochi giorni. Una delle più belle storie dell'imprenditoria italiana, la sua. E in quelle parole così sferzanti, com'era nella tempra di un brianzolo tutto di un pezzo, vi è una certa presa di distanza da un mondo preoccupato solo di occupare il centro della scena. D'altronde la storia dice che lui è stato un uomo del costruire.

Nei fatti un irriducibile avversario di quel capitalismo di relazione che ha portato solo danni a questo Paese. Come si è tenuto sempre alla larga dai cosiddetti salotti buoni della finanza. Non ha mai usato la politica per trarne vantaggi. La politica ha utilizzato mille sotterfugi per ferire la sua impresa. Mi risulta che negli Stati Uniti il modello Esselunga è stato studiato nei dettagli, come si fa con le imprese di successo. In Italia molto meno. Forse perché invitava a lavorare di più; perché ha creduto fermamente nella meritocrazia. Perché ha fatto sentire la sua voce davanti all'arroganza delle Coop. Caprotti, anziché perdere tempo a frequentare la «gente che piace», preferiva andare in incognito nei suoi supermercati, per osservare e conoscere meglio i suoi clienti. Una lezione d'impresa straordinaria. Oggi quanti imprenditori conoscono bene la propria potenziale clientela? A ben vedere, pur avendo costruito una realtà di enormi proporzioni, in sé custodiva lo spirito dell'artigiano, dell'uomo di bottega. In questi giorni si è scritto molto di Caprotti. In generale è mancata la riflessione più semplice. Ma più vera, anche se rappresenta un giudizio che deve far pensare. Ovvero: in Italia fare impresa è cosa complicatissima. Come scalare (in bici) il Mortirolo con il rapporto sbagliato. Il successo di Caprotti è l'insuccesso della nostra politica. Un uomo solo al comando. Lui.

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