Economia

L'inflazione non spaventa più le Borse

I prezzi Usa balzano al 2,1%, ma Wall Street sale e l'Europa corre (+1,8% Milano)

L'inflazione non spaventa più le Borse

Poteva essere un'altra strage di San Valentino, con i mercati a cadere come birilli sotto i colpi dell'inflazione. Le premesse c'erano tutte: in gennaio, i prezzi al consumo Usa sono saliti al 2,1% annuo, un livello superiore alle attese e, in linea teorica, al di sopra dell'obiettivo della Federal Reserve. Eppure, a parte un iniziale spavento, nessuno sembra aver più messo in correlazione l'andamento del carovita con una politica monetaria destinata a farsi più rigida. Le Borse hanno infatti girato lo sguardo altrove inanellando rialzi convinti in Europa, dove Milano è stata la migliore con un progresso dell'1,8%. Più cauta, ma sempre positiva, Wall Street (+0,8%) a un'ora dalla chiusura).

Qualche spia di preoccupazione è però rimasta accesa. Il rendimento dei Treasury a 10 anni ha superato il 2,9%, segno che è sul segmento obbligazionario che si stanno ora scaricando le attese di quattro strette ai tassi Usa quest'anno. È un'ipotesi che sta prendendo corpo: i future sui Fed Funds indicano ora un 23% di probabilità, contro il 17% di martedì, di un quadruplice giro di vite al costo del denaro. Non solo. Le tensioni sui bond stanno avendo riflessi sempre più evidenti sui mutui immobiliari, con il tasso a 30 anni schizzato al 4,75%. Livelli che rischiano di impattare sul mercato del mattone.

Resta però da capire per quale motivo il surriscaldamento dell'inflazione, tanto temuto alla vigilia, sia stato sostanzialmente snobbato dai mercati azionari. Secondo gli osservatori, vari fattori stagionali rendono difficile stabilire quanto sostenibile sia il rialzo dei prezzi. A cominciare da quello dei capi di abbigliamento (+1,7% su dicembre, il balzo maggiore dal 1990). Un altro motivo potrebbe essere il fatto che il Cpe, l'indice più monitorato dalla Fed per tastare il polso ai prezzi, è ancora all'1,5%. Insomma, per la banca centrale americana la soglia di allarme non dovrebbe ancora essere stata superata. È inoltre probabile che gli investitori si siano sentiti rassicurati dalle parole pronunciate in occasione del giuramento dello scorso 5 febbraio (ma diffuse solo l'altroieri nel dettaglio) dal presidente dell'istituto di Washington, Jerome Powell, sulla gradualità con cui sarà azionata la leva dei tassi. Nulla di trascendentale, visto che l'ex di Carlyle Group è stato scelto da Donald Trump per due motivi: proseguire nell'accorta opera di normalizzazione della politica monetaria introdotta da Janet Yellen; e dedicarsi, soprattutto, alla deregolamentazione del settore finanziario.

Ciò non significa che la navigazione di Powell sarà sicuramente placida. E non solo per il moto ondivago di Wall Street: è l'economia reale ad avere qualche extrasistole. Ieri, per esempio, il dato sulle vendite al dettaglio ha messo in mostra un calo dello 0,3% in gennaio, arrivato oltretutto dopo lo stallo di dicembre. Morgan Stanley, Barclays e Bank of America Merrill Lynch hanno subito ridotto le stime sul Pil Usa del primo trimestre, ma altri analisti temono che l'America stia scivolando nella stagflazione visto che la debolezza del dollaro (ieri sceso fino a 1,2415 contro l'euro) alimenta la spirale inflazionistica.

Ieri, però, i mercati potrebbero aver interpretare l'andamento dei consumi come il segno che, con un'economia non in fase di surriscaldando, la Fed non calcherà troppo la mano.

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