Economia

Londra dribbla la Brexit: +2,3% il Pil

L'Istat inglese: "Grazie alla finanza la crescita non risente del voto". Il nodo prezzi

Londra dribbla la Brexit: +2,3% il Pil

In fondo, è anche una questione di coraggio. Oggi come 30 anni fa. Riprogettare il proprio mondo, mettere in discussione certezze consolidate. Smascherare il conservatorismo travestito da progressismo. Tutte cose che gli inglesi ben sanno. Con lo schiaffo della Brexit hanno sfidato l'ignoto, e ora si fanno beffe delle prefiche pronte al funerale del Regno. Il Pil inglese, infatti, è vivo: +0,5% nel terzo trimestre, più delle attese, e un robusto +2,3% annuo che l'Italia dello zero virgola manco si sogna.

Se fosse ancora viva, probabilmente festeggerebbe quella Margaret Thatcher mai tenera nei confronti dell'Unione europea, fino al punto da sbatterle in faccia un «voglio indietro i miei soldi!». La Gran Bretagna che come un magnete calamita una fetta gigantesca degli affari globali, è infatti una sua creazione. Plasmata esattamente tre decenni fa, con l'entrata in vigore, il 27 ottobre 1986, del Financial Services Act. Viene scodellato dopo la battaglia vinta contro le Trade Unions dei minatori, e rivoluziona il mercato borsistico con il taglio definitivo del cordone ombelicale che ancora legava la Union Jack alla società industriale con incrostazioni vittoriane. È la legge nota come il Big Bang della City, è la norma che ne cambia i connotati trasformando un mercatino quasi domestico in un centro capace di integrarsi con le Borse mondiali e di costituire il terzo anello, dopo New York e Tokio, di una catena dove sugli scambi non tramonta mai il sole. La Lady di Ferro fa la rivoluzione con due passate di bianchetto: cancella le commissioni fisse in Borsa e la figura degli intermediari. È un po' un copia-incolla di quanto fatto a Wall Street nel '75, ma basta per far sparire quel mondo pittoresco fatto di grida, sudore, maniche rimboccate e segni convenzionali che a Piazza Affari resisterà fino alla primavera del '94, sostituito da computer e compravendite frenetiche.

Le fondamenta di allora sono le stesse su cui oggi si regge l'Inghilterra. E visti i dati sulla crescita del Paese, si direbbero solide. L'Istat inglese fa sapere che «le prospettive di crescita non sembrano al momento risentire dell'esito referendario e un buon risultato dei servizi ha permesso di compensare una debolezza degli altri comparti». Dove per servizi si intende soprattutto la finanza. Di certo, le previsioni più catastrofiche vanno ricalibrate. Merito anche del pronto intervento della banca centrale, rapida nel tagliare i tassi la scorsa estate. Una mossa che consentirà un dietrofront nel caso l'inflazione, a causa della sterlina debole, dovesse surriscaldarsi. Con i prezzi in aumento dell'1% annuo in settembre, Londra non sembra però correre questo rischio. Resta da vedere come si comporteranno le banche che minacciano una fuga dalla City, anche se l'esodo dipenderà dal modo in cui si svilupperanno i negoziati con Bruxelles per l'uscita dall'Unione.

Le grandi industrie non sembrano invece scoraggiate: la giapponese Nissan ha annunciato ieri di voler produrre il nuovo modello della sua piccola 4x4 Qashqai nel Sunderland, nel nord est dell'Inghilterra. «Un voto di fiducia» nei confronti del Paese, ha commentato il premier Theresa May.

O, come sempre, anche un atto di coraggio.

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