Economia

Mai così male da 28 anni: i dazi frenano il Pil cinese

Famiglie sfiduciate: nascite ai minimi dal 1980 Dal governo stimoli miliardari all'economia

Mai così male da 28 anni: i dazi frenano il Pil cinese

Il Pil della Cina è cresciuto nel 2018 del 6,6%, il ritmo più basso dal 1990. L'analogia con l'andamento di 28 anni fa finisce qui: allora, il Paese stava vivendo la fase di transizione da un regime economico centralizzato a un sistema capitalistico, seppur sempre sotto stretto controllo governativo, da cui sarebbero derivate le espansioni a doppia cifra degli anni successivi. Ora, quello del Dragone è un passo affaticato, azzoppato dalla guerra commerciale in atto con gli Stati Uniti. Le tariffe punitive decise da Donald Trump hanno tolto ulteriore slancio e messo a repentaglio l'ennesimo step che Pechino si è da tempo riproposta di fare: ovvero, dare più peso ai consumi interni così da essere meno dipendente dalle esportazioni. Proprio le famiglie sono la miglior cartina di tornasole di un momento critico. E non solo per il primo calo da 20 anni subìto nel 2018 dalle vendite di automobili: a giudicare dalle nascite, appena 15,23 milioni lo scorso anno a segnare il dato peggiore dal 1980, si direbbe che la fiducia stia venendo meno. In prospettiva, il problema demografico conduce a un invecchiamento della popolazione destinato poi a riflettersi sul ciclo economico.

Le sfide che attendono il presidente Xi Jinping sono ardue. La prima riguarda la risoluzione della controversia con Washington prima dell'inizio di marzo, quando giungerà a scadenza la tregua siglata con gli Usa a margine del G20 di Buenos Aires. Un no deal farebbe innalzare dal 10 al 25% i dazi imposti lo scorso settembre dalla Casa Bianca su 200 miliardi di dollari di importazioni cinesi. Gli incontri con le delegazioni di medio livello di un paio di settimane fa hanno fatto segnare qualche passo in avanti, ma non ancora sufficiente per accorciare le distanze su problemi centrali quali per esempio il furto delle proprietà intellettuali. Il Fondo monetario internazionale avverte, non a caso, che «la possibilità di nuove tensioni in primavera getta ombra sulle prospettive di crescita mondiale». A fronte di uno sviluppo del commercio globale rallentato ben al di sotto delle medie del 2017, per l'organismo guidato da Christine Lagarde la «priorità» per tutti i Paesi è che i disaccordi commerciali vengano risolti «rapidamente e in modo cooperativo piuttosto che aumentare ulteriormente barriere lesive e destabilizzare una economia mondiale che sta già rallentando». Un esacerbarsi delle tensioni, oltre ad avere conseguenze sui costi dei beni importati e quindi sulle tasche dei consumatori, avrebbe effetti sugli investimenti aziendali, impatterebbe sulla filiera produttiva e rallenterebbe la produttività.

Il Fmi sembra comunque già mettere in conto che il Pil cinese non andrà oltre una crescita del 6,2% quest'anno, nonostante le misure di emergenza messe in campo nell'ultimo periodo. Con l'obiettivo dichiarato, come ha affermato il premier Li Keqiang, di non lasciare «precipitare da una scogliera» l'economia nazionale. In particolare, i 1.160 miliardi di yuan di liquidità immessi la scorsa settimana nel sistema e un taglio delle tasse su scala più ampia.

Ma, in caso di rottura con gli Usa sul fronte commerciale, occorrerà ben altro.

Commenti