Economia

La moda italiana fa impazzire i fondi

Ecco le Maison più ambite dai gruppi di private equity, dopo l'accordo tra Cavalli e Clessidra

La moda italiana fa impazzire i fondi

Il fashion made in Italy attrae sempre più acquirenti e non solo per le vie dello shopping, dove è iniziato il conto alla rovescia in attesa dell'avvio dei saldi. Fondi di investimento, colossi del lusso internazionale (francesi certo, ma anche cinesi) e investitori industriali sono in fila per poter conquistare il meglio del made in Italy.

Le opportunità non mancano, soprattutto per i nuovi «Paperoni» ricchi di liquidità, pronti a scommettere su potenzialità ancora inespresse o piani di internazionalizzazione di marchi simbolo della moda tricolore. Lo dimostra anche il recente annuncio dell'avvio delle trattative in esclusiva tra Roberto Cavalli e il fondo Clessidra di Claudio Sposito per la quota di controllo della Maison dove lo stilista fiorentino dovrebbe, comunque, mantenere una partecipazione di minoranza e affiancare il nuovo management. L'operazione segue di pochi mesi la cessione di Krizia, storico brand fondato da Mariuccia Mandelli a Shenzhen Marisfrolg Fashion Co., azienda leader nel prêt-à-porter in Asia. Non solo.

L'anno è stato caratterizzato dall'ingresso di Blackstone in uno dei brand più noti nel mondo, ovverosia Gianni Versace, con il 20% del capitale; dall'acquisizione da parte di Clessidra del 35% di Harmont&Blaine e dall'ingresso di Capital Management e L Capital Asia (fondi di private equità sponsorizzati da Lvmh) in Vicini spa (società dell'universo calzaturiero a cui fa capo la griffe come Giuseppe Zanotti) con il 30% del capitale. E il trend potrebbe proseguire anche nei prossimi mesi. Sono numerosi i brand italiani in cerca, più o meno ufficialmente, di partner tra cui Cesare Paciotti (il gruppo calzaturiero è protagonista di un piano di rilancio all'interno di un concordato di cui si discuterà il 15 aprile) e Stroili Oro per cui sarebbero in lista ben tre fondi (Emerisque, Clessidra e Vtb Capital). Molti di più sono gli emblemi del made in Italy che, per quanto non in vendita, potrebbero attrarre investitori grazie alla forza dei rispettivi marchi, anche oltre confine, alla solidità dei dati finanziari e alle prospettive di crescita.

A catalizzare l'attenzione, ovviamente, sono soprattutto pesi massimi come Giorgio Armani, Ermenegildo Zegna, Missoni, Trussardi. Ma anche Otb (società di Renzo Rosso a cui fa capo il brand Diesel), Luisa Spagnoli, Max Mara, Corneliani, Etro, Blufin (tra i brand Blumarine), Furla ed Ermanno Scervino, o i più giovani Liu Jo, Calzedonia, Teddy (tra i brand Terranova e Rinanscimento), Capri srl (tra i brand Alcott), Pianoforte Holding (che ha in portafoglio marchi come Yamamay e Carpisa), Pinko, Nerogiardini e Antress Industry spa. Tutte realtà che un recente studio di Pambianco ritiene «quotabili».

Ma, in tempi di incertezza di Borsa, l'apertura del capitale a nuovi partner può essere un'alternativa attraente che risolve, in un colpo solo, due degli eterni problemi della moda italiana caratterizzata dalla predominanza di aziende familiari: la successione e la reperibilità delle risorse necessarie a crescere.

Peraltro, proprio lo stampo familiare delle imprese (dimensione in genere accessibile e controllo unificato), insieme al valore associato all'etichetta «made in Italy», continuano ad attrarre gli investitori.

Acquisire infatti brand italiani, compresi quelli quotati (su cui infatti ciclicamente gli analisti fanno i conti con le ipotesi di M&A), può essere più semplice rispetto a un'analoga operazione su una griffe estera a capitale diffuso e, potenzialmente, molto redditizio.

 

Commenti