Economia

Più dialogo tra banche e imprese

 Lo chiedono tutti a gran voce. «Fare sistema» si sta confermando come una via possibile per uscire dalla crisi 

L’ascia di guerra sembra definitivamente seppellita. Gli scambi di accuse tra banche e imprese sono stati sostituiti dalla volontà di capire le ragioni dell’altra parte. E di trovare, insieme, qualche sistema per superare un momento particolarmente critico. Perché si sa che la recessione e le turbolenze sui debiti sovrani non termineranno nel 2013. Nell’era della globalizzazione, poi, l’uscita dalla congiuntura negativa non dipende esclusivamente dai comportamenti dei player nazionali.

Le decisioni della Bce o della Federal Reserve, le pagelle delle agenzie di rating o una frenata del Pil cinese influiscono, spesso pesantemente, sul business di una Pmi metalmeccanica bresciana così come sulla redditività di un istituto di credito, multinazionale o locale che sia. Banche e aziende in Italia sono costrette, e vogliono davvero, fare sistema, una locuzione ripetuta fino alla nausea, quasi fosse un mantra scaramantico, ma che esprime un bisogno reale del tessuto produttivo e finanziario italiano. La consapevolezza della necessità di collaborazione è emersa chiaramente dal convegno di BancaFinanza «Finanziare la ripresa - banche & imprese: spread, garanzie e territorio».

 

più rischi per le banche Il contesto economico-finanziario in cui si trovano a operare gli imprenditori e le istituzioni finanziarie è chiaro. Come ha affermato Angela Maria Scullica, direttore di BancaFinanza e del Giornale delle Assicurazioni aprendo il convegno, «recessione, carenza di liquidità, riduzione del risparmio delle famiglie e aumento della disoccupazione fanno lievitare i rischi per le banche di finanziare imprese che potrebbero avere, in seguito, delle difficoltà nel rimborsare i prestiti. Questo», ha proseguito, «si traduce per gli istituti di credito in un aumento del costo del denaro destinato alle imprese e in una maggiore selezione dei finanziamenti, soprattutto per le nuove iniziative imprenditoriali. D’altra parte, le aziende che hanno sviluppato il loro business quasi esclusivamente sull’indebitamento bancario presentano situazioni che non sono spesso equilibrate e livelli di debito eccessivi. Quindi, bassi livelli di capitalizzazione e la stretta dipendenza dal credito bancario, quale fonte quasi unica di finanza esterna, rendono difficile alle imprese presentare business plan che siano finanziabili».

Dai rischi delle imprese ai rischi per le banche: salvare i finanziamenti o i finanziatori? «Vista la situazione e le ragioni di entrambe le parti, lo scontro diretto non condurrebbe a nessun risultato di lungo termine, dato che poi una delle due parti si troverebbe a capitolare, magari quando è troppo tardi per trovare una via d’uscita», risponde Scullica. «La prima cosa da fare è non arroccarsi sulle proprie posizioni nella difesa miope delle proprie istanze, come potrebbero essere la mancata percezione della necessità di ricapitalizzare l’azienda o la negoziazione negata di un finanziamento da parte di una o più banche».

 

tra l’incudine e il martello Resta il fatto che l’erogazione del credito alle imprese e alle famiglie l’anno scorso ha avuto un forte rallentamento. I finanziamenti, circa 1.500 miliardi di euro a settembre, hanno registrato un calo del 2,9% rispetto all’anno precedente. Sulla contrazione hanno pesato la caduta delle domanda causata dalla recessione e il calo degli investimenti fissi lordi, con una contrazione dell’8%. Contemporaneamente, le sofferenze negli ultimi anni sono peggiorate. In rapporto agli impieghi arrivano al 5,9%, circa 120 miliardi contro i 41 del 2007, un indice evidente delle grandi difficoltà delle imprese e delle banche. I crediti deteriorati (sofferenze, incagli, ristrutturati, past due) costituiscono ormai il 12,7% di tutti i crediti e, secondo molti analisti, il picco negativo deve ancora venire.

«Sono dati che ci fanno capire concretamente che in Italia c’è un connubio fortissimo tra banche e imprese: se le prime vanno male anche le seconde soffrono, e viceversa. E questa è una peculiarità del nostro sistema creditizio basato su banche commerciali, e non speculative, che raccolgono risparmio per finanziare imprese e famiglie», sostiene Giovanni Pirovano, membro del comitato di presidenza dell’Abi. «Le banche si trovano tra l’incudine e il martello. Da una parte vengono accusate di non dare credito, dall’altra importanti autorità, come il Fmi, sostengono che gli istituti di credito italiani non fanno abbastanza accantonamenti sui crediti deteriorati. E poi si dice che facciamo pagare troppo cari i finanziamenti. Critiche che non reggono all’analisi dei fatti. Se l’Italia ha un rating BBB, le banche - anche Unicredit e Intesa Sanpaolo che sono patrimonialmente più solide di altri grandi istituti europei - non possono avere un rating più alto. E quindi pagano più caro il denaro rispetto agli altri istituti europei. Se fallisce una banca a Berlino o Francoforte, lo stato tedesco interviene: ha già impiegato 400 miliardi per sostenere le Landesbank e altri 480 li ha dati come fidejussioni. La stessa cosa succederebbe in Italia? No, il nostro stato non interverrebbe. Quindi il nostro sistema creditizio è giudicato vulnerabile. Inoltre, lo spread dei nostri titoli di stato ha creato e crea tuttora enormi difficoltà a raccogliere denaro sui mercati interbancari internazionali, che chiedono agli italiani tassi proibitivi. Per fortuna che c’è Mario Draghi, il vero propugnatore dell’unione bancaria europea. Unione che sgancia le banche dal rating del proprio stato di appartenenza, portandole sotto la vigilanza europea e mettendo sullo stesso piano tutti gli istituti di credito dell’area euro. Il processo di unione è già stato avviato dal consiglio d’Europa di ottobre e ne beneficeremo tutti, in primis le imprese italiane e le famiglie che avranno credito a costi inferiori».

 

i finanziamenti della bce Però proprio la Bce ha messo a disposizione del sistema bancario europeo, in due tranche, l’anno scorso, finanziamenti a tre anni per un totale di 1.000 miliardi di euro. Di questi, 200 lordi (137 miliardi netti) sono andati alle banche italiane. Tutti pensavano che servissero per finanziare le imprese, per riaprire il credito alle famiglie. Invece non è successo. Certo, la domanda di credito delle aziende è crollata a causa della recessione. Ma i finanziamenti sono scesi di circa il 3%. Come sono stati impiegati quei miliardi?

«Normalmente le banche italiane raccoglievano 100 dalle famiglie e ne impiegavano 120», risponde Pirovano. «E il 20 era tutto recuperato sul mercato interbancario. Ma per via dello spread e della crisi dei debiti sovrani, questo mercato si è bloccato. L’intervento della Bce in realtà andava a sostituire la liquidità venuta a mancare. L’alternativa era farsi restituire quel 20 dalle famiglie e dalle imprese, qualcosa come centinaia di miliardi: è un assurdo. Una banca che ha concesso un mutuo non può richiederlo indietro, così come il prestito alle imprese. Inoltre, i finanziamenti Bce sono stati usati per un sostanziale salvataggio dello stato. Nel 1996, l’80% del debito pubblico era in mani italiane. Nel 2010 gli stranieri avevano circa il 45% dei nostri titoli. In quel momento, con la tripla B, l’estero ha cominciato a vendere. E a questo punto è stato sollecitato un deciso intervento delle banche per comprare Bot e Cct. Non l’hanno fatto a cuore leggero perché con le nuove disposizioni dell’Eba (costituire un buffer addizionale di fondi per coprire le perdite virtuali sui portafogli titoli) si sono assunti rischi notevolissimi, e hanno dovuto anche fare aumenti di capitale. Ma è stato fatto. E oggi siamo tutti più sereni: dal 55%, la percentuale di titoli di stato in mano alle famiglie e alle banche italiane è salita al 67%, riportandoci in una situazione più tranquilla e normale. E il mercato interbancario si sta aprendo almeno per le prime due banche. Oggi, la patrimonializzazione degli istituti italiani è notevolmente rafforzata, hanno ridotto le aree esposte a possibili rischi», continua Pirovano. «La leva finanziaria, misurata dal rapporto tra il totale delle attività di bilancio e il patrimonio di base, è al 19%, le banche tedesche sono al 36%. In questo quadro, non semplice, gli istituti di credito hanno fatto molto per le aziende in questi anni: la moratoria sui finanziamenti nel 2008, con 260 mila domande accolto per un totale di 70 miliardi, i le numerose iniziative con la Cassa depositi e prestiti, la Bei, la Sace, la costituzione insieme a Confindustria e altri enti della sgr per la gestione del fondo italiano per la capitalizzazione delle Pmi».

 

private equity Iniziative che evidentemente non hanno frenato la caduta del credito alle imprese. Al di fuori del perimetro bancario ci sono opportunità di finanziamento attraverso il private equity, un settore poco frequentato dalle Pmi italiane: sono circa 1.000 le imprese italiane finanziate da 150 società di venture capital. Come sta andando questo settore? «Più che rappresentante delle aziende che forniscono capitali di rischio, mi sento soprattutto azionista di minoranza o maggioranza delle 1.100 aziende che abbiamo nel nostro portafoglio», risponde Anna Gervasoni, direttore generale di Aifi, (associazione italiana del private equity e venture capital). «Imprese capitalizzate da un’iniezione di equity fatta dal fondo con il bilancio certificato, governance sana, con veri consigli di amministrazione in cui ci sono consiglieri indipendenti, progetti di sviluppo e di internazionalizzazione (altrimenti i soldi non glieli diamo, per noi è un criterio di selezione) che però hanno problemi con le banche. Ed è un fatto grave. Abbiamo una capacità di investimento di circa 6 miliardi di euro, che possiamo impiegare nei prossimi due o tre anni; poi riusciamo a disinvestire (ma le nostre imprese arrancano se non sono assistite dal credito bancario) o dobbiamo andare a fare un’altra raccolta fondi. Ipotesi impraticabile in questo momento: gli investitori internazionali, ma anche quelli italiani purtroppo, non danno più una lira a un fondo che investe in Pmi italiane perché attualmente non credono più al nostro sistema», continua Gervasoni.

«E poi è impensabile che la banca pensi a se stessa, che il private equity pensi a se stesso. Dobbiamo pensare tutti al funzionamento del sistema. Se la Borsa non funziona è un problema per tutti perché le aziende che abbiamo in portafoglio possono continuare a crescere se alcune si quotano. Altrimenti fanno fatica. Dove vanno a trovare gli altri azionisti che iniettano qualche milione di equity per continuare lo sviluppo? La banca non deve chiudersi in se stessa. Le nostre imprese hanno grandi difficoltà, vista anche l’immagine dell’Italia all’estero, a cercare capitali sui mercati internazionali; almeno quello nazionale facciamolo funzionare un po’ meglio, facilitando l’accesso al credito».

 

nuove generazioni Su questo concorda Marco Oriolo, vice presidente Giovani imprenditori di Confindustria, che sottolinea come la nuova generazione di industriali sia più pronta a fare networking, a unirsi per andare alla conquista di nuovi mercati internazionali, ma anche per proporre agli istituti di credito progetti più sostenibili. Oriolo avverte però due pericoli. Il primo è che la situazione drammatica dell’economia e «il sistema bancario, che oggi non sembra in grado di supportare le pmi, non diventino un alibi. Non dobbiamo pensare che le aziende italiane non escano dalla crisi se non viene un aiuto dall’alto, se ci sono provvedimenti che tagliano le tasse, migliorano la burocrazia, velocizzano la giustizia, se le banche non ci danno soldi. È giusto fare le battaglie per chiedere interventi legislativi, ma dobbiamo essere pronti ad assumerci le nostre responsabilità», dice Oriolo.

«Occorre cambiare anche il rapporto con gli istituti di credito: scordiamoci che si possa tornare al sistema precedente orientato all’indebitamento bancario. Dobbiamo essere pronti a un nuovo equilibrio tra capitale proprio e capitale di debito. Sono stati fatti anche dal governo dei passi in avanti per supportare in modo nuovo le aziende, come i mini bond per le imprese non quotate. Non siamo antagonisti con il sistema bancario. Siamo pronti a metterci il nostro capitale. Ma abbiamo bisogno della benzina delle banche: occorre più professionalità, non affidarsi a una applicazione meccanica dei processi di rating senza guardare alla storia e alle prospettive delle aziende. Creiamo percorsi di finanza agevolata e incentivi per chi si internazionalizza, innova, si aggrega, fa ricerca e sviluppo».

Idee irrealizzabili, visto il contesto negativo che si prospetta anche per il 2013? «No: dal confronto tra Abi e imprenditori possono uscire soluzioni condivise e utili per tutti, come è già stato fatto», afferma Pirovano. «Le aziende di credito italiane sono banche commerciali e possono uscire dalla crisi solo se le aziende crescono.

E ciò può avvenire a due condizioni: se si risolve il problema dei debiti sovrani, riducendo il debito pubblico, e se si prendono provvedimenti che favoriscano la ripresa».

Commenti