Cultura e Spettacoli

Edgar Allan Poe in salsa hitchcockiana

Probabilmente Andrew Taylor, scrittore inglese cinquantacinquenne, autore del romanzo Il ragazzo americano (Editrice Nord, pagg. 550, euro 18,60) non ha letto alcunché di Gesualdo Bufalino che, giusto a proposito di uno dei grandi narratori da lui idoleggiati - Edgar Allan Poe -, ebbe a scrivere con acutezza: «L’iconografia gotica, più che un’eredità di spaventi scolastici è in Poe il suo stesso cardiogramma, mentre soccombe al mare dell’invisibile. Lui che pretendeva di mettere le briglie al caos, di costruire una poesia come si costruisce, con regolo e filo a piombo, una casa...».
Eppure, senza il supporto di una tale illuminante intuizione sulla fisionomia di Poe, la sua tormentata esistenza, la sua enigmatica fine, Andrew Taylor architetta nel proprio imponente, ramificato racconto la sapiente griglia drammaturgica fittamente abitata da personaggi, vicende dai contorni precisissimi e insieme incongrui che via via si agitano, si fondono, si sciolgono, di nuovo s’ingarbugliano nello spazio, nel tempo «altro» tra un’arcaica Inghilterra e l’America provinciale della prima metà dell’Ottocento.
Tutto ciò nel segno, pur per oblique rifrangenze, della fugace stagione giovanile «inglese» di Edgar Allan Poe, proprio in concomitanza con la frequentazione della pretenziosa Manor House School diretta con dispotico estro dal reverendo John Bransby nel villaggio di Stoke Newington. Con una scrittura improntata dalla strategia spuria del pastiche arieggiante i più classici scrittori inglesi dell’Ottocento (dalle sorelle Brönte a Charles Dickens associati agli «americani» Henry James ed Edgar Allan Poe, specie per l’estro gotico della sua narrativa) e, altresì, da un «parlato» tutto corrivo ed epocale, Andrew Taylor costruisce una «storia a incastro» che, pur divagando talora tra scorci e figure inessenziali, tocca, al suo acme, esiti davvero accattivanti.
Il plot ha nell’insieme anche qualcosa di hitchcockiano in quel rovistare indiscreto, impietoso negli anfratti e persino negli arrière pensées di individui all’apparenza dabbene e, in effetti, malati dei vizi ricorrenti d’una società, di un vivere - quale quelli del classismo feroce e snob del primo Ottocento in Gran Bretagna - destinati a naufragare inesorabilmente nello sfacelo, nello squallore più desolati.
Corre l’anno 1819, Thomas Shield, giovane professore di greco e latino reduce dalla sconvolgente battaglia di Waterloo (e perciò stesso con qualche turba psichica) conosce nell’istituto in cui insegna due ragazzetti sensibili e intelligenti, Charlie Frant ed Edgar Allan Poe. Fra i tre s’accende subito una certa familiarità, consolidata altresì dalla giovane madre di Frant, la bella Sophie, legata alla facoltosa schiatta dei banchieri Wavenhoe. Qui l’intrico si fa veramente inestricabile. E, anzi, le digressioni e le conversioni del racconto s’inoltrano, da un lato, nei luoghi più squallidi popolati di reietti, di viziosi e, dall’altro, nelle traversie, nei labirintici casi in cui incappa il giovane Edgar Allan Poe.

Così il cerchio sembra chiudersi, mentre in realtà s’innesca su queste vicende, su questi personaggi dalle sghembe sembianze una saga di colori illividiti dal mistero, dal crimine.

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