Gli effetti speciali di Preti nel gran teatro del mondo

L'artista calabrese enfatizza la lezione di Caravaggio e realizza opere spettacolari

diCaravaggio è come un diamante purissimo. E ogni sua opera mostra una sintesi assoluta rispetto ai soggetti che affronta. È questo che lo rende un pittore di pensiero del tutto alieno da rappresentazioni teatrali anche nei momenti di maggiore tentazione come nelle Sette opere di Misericordia a Napoli o nella Decollazione del Battista alla Valletta. In Caravaggio anche la scenografia è essenziale, inevitabile, come si vede nella Morte della Vergine . Nessuno lo intende meglio di Mattia Preti, il grande pittore calabrese che proprio da Caravaggio riparte nello stesso momento in cui la sua parabola declina e finisce la febbre che aveva contagiato tutta l'Europa pittorica.

Verso il 1633-35 Mattia arriva a Roma e inizia a sbarazzarsi dei teatrini del fratello Gregorio, meno dotato. In quegli anni tutto accadeva a Roma e il giovane artista si misurava con i maestri che avevano inaugurato il secolo. Mattia sembra non seguire mode né tendenze ed è guidato da un'ansia di semplificazione come per un ritorno alle origini, cercando di realizzare quel punto di fusione tra Giorgione e Caravaggio, cui fanno riferimento alcune fonti. Ne è prova evidente, nella sua purezza, il Concerto di San Pietroburgo. Mattia non ha dubbi: riesce a ricreare uno schema di Caravaggio con assoluta semplicità e senza devozione. Mai, anche nei momenti di più alta spiritualità, Mattia Preti sarà un pittore devoto. Nelle sue prove migliori è drammatico, shakespeariano. La sua febbre per Caravaggio si vede nella Crocifissione di San Pietro di Grenoble ma anche nella Lezione di musica della Galleria Doria Pamphilj, un'opera incontinente, ma bellissima, nella quale come per sfida potrebbero stare almeno quattro quadri di Caravaggio. La concentrazione di Mattia è tale che non teme di affollare, di moltiplicare, senza mai diminuire la sua tensione. Verità, ritmo, eleganza convivono in questa meravigliosa composizione che nessun francese a Roma aveva tentato. Perché è certamente nei francesi, in Valentin de Boulogne, in Nicolas Tournier, in Simone Vouet che Mattia Preti trova le maggiori affinità, gli stimoli e le concordanze.

Se possiamo vedere aprirsi il suo catalogo con opere di genere come concerti e taverne, la teatralizzazione cui Mattia Preti sottopone il repertorio e il metodo caravaggeschi investe soprattutto soggetti religiosi con una enfatizzazione che rende l'artista calabrese l'equivalente meridionale dei pittori dei Sacri Monti. Il suo caravaggismo è sempre recitato, non è mai preso dalla realtà, ma trasferito sulla scena teatrale con tutti gli effetti speciali richiesti e favoriti da questa condizione. La sensazione è che Mattia voglia fare un repertorio o un'enciclopedia del caravaggismo, arrivando a strafare per soddisfare ad abundantiam le richieste del committente con uno schema di affollamento, di horror vacui che si ritrova anche in quel primo certo capolavoro nel genere che è il sorprendente Concerto Doria Pamphilj. Un meraviglioso signore grasso e sontuosamente vestito ascolta pensieroso, accompagnato da una scorta, un'aria per strumenti e voci guidati da un maestro del coro in un ambiente con poca luce. A destra, le donne di famiglia, con bambini e servi, seguono distrattamente. L'episodio appare, rispetto al precedente, unitario benché svolto con numerosi attori e sembra indicare una declinazione psicologistica che si manifesta nella concentrazione malinconica, e come dovuta, del padrone di casa, ritratto di potenza degna dello Scipione Borghese pressoché coevo di Bernini, datato 1632. E certo subito Mattia Preti ci appare un superbo e mancato ritrattista.

Il suo grande teatro religioso inizia con una maestosa pala d'altare in una sede periferica. Un vero trionfo. Mi riferisco al Battesimo di Sant'Agostino per la chiesa di Sant'Eufemia a Tortoreto. La chiesa fu costruita nel 1639 che è la data post quem per la pala che potrà dunque cadere intorno al 1640. A partire da questo testo, nell'intricato percorso di Mattia Preti, tutto si può chiarire. L'enfasi è somma, e l'esperienza fatta nelle opere fin qui esaminate, si amplia dotandosi di una retorica compositiva nella quale entrano evidenti elementi lessicali di Caravaggio e di Battistello Caracciolo, ma con una monumentalità che trasforma anche il chiaroscuro strisciante in uno strumento per dar forza ai protagonisti nei loro gesti ampi e solenni, e con il bellissimo particolare del volume plastico della testa di santa Monica. Inizia di qui un Mattia Preti potentemente drammatico, come nessun caravaggesco capace di plasmare le forme attraverso la luce. Lo vediamo nel Miracolo di San Pantaleone a Napoli che John T. Spike ritiene «il primo dipinto di Preti esibito in pubblico a Roma».

Di qualche tempo dopo, tra il 1645 e il 1646, ma nello stesso spirito, e con una straordinaria compiutezza formale, è la Crocifissione di San Pietro ora a Grenoble, dipinta a Roma per la marchesa Angelelli. È questo il momento dei capolavori monumentali come il Sansone e i filistei di Ginevra e la Resurrezione di Lazzaro di Palazzo Rosso a Genova. Comincia il decennio più felice per l'artista, in una serie di assoluti capolavori con profondi chiaroscuri e una pittura sempre luminosa e brillante. Lo Spike afferma, motivatamente: «Lo stile pittorico di Preti subì una notevole evoluzione verso la metà degli anni Quaranta del Seicento, il che avvalora l'ipotesi che avesse studiato a fondo i maestri del Rinascimento veneziano, in particolare Tiziano e Veronese».

Ma la forza di Caravaggio riemerge in alcune opere chiave come la Susanna e i vecchioni della collezione Longhi di Firenze, tra le opere più travolgenti di Preti per la capacità di ammorbidire il chiaroscuro dell'irraggiungibile modello con la «macchia» di Guercino. Ancora, tra i più significativi e riusciti capolavori di Mattia, vi è certamente Clorinda fa graziare Olindo e Sofronia dal rogo di Palazzo Rosso a Genova, un'opera di perfetto equilibrio eseguita per il Cardinale marchigiano Giovanni Battista Pallotta intorno al 1646, in pendant con il Damone e Pizia di Guercino, il pittore che più di ogni altro condivide con Mattia Preti la teatralizzazione melodrammatica di Caravaggio. Mattia racconta, illustra la città monumentale, rappresenta i protagonisti come su un palcoscenico davanti alla moltitudine curiosa. Sentiamo il rumore della folla, il sinistro scricchiolare del patibolo con gli armigeri, il silenzio rassicurante del cielo nel quale aleggia lieve l'angelo liberatore. In basso Clorinda a cavallo ordina e crea scompiglio e stupore. Ogni personaggio ha il suo carattere in questo teatro. Mattia giocherà spesso lo schema: nella Morte di Sofonisba di Roma e anche in riedizioni, con varianti, degli stessi soggetti: il Ritorno del figliol prodigo di Capodimonte, l' Olindo e Sofronia di Malibu.

All'inizio degli anni '50 Preti trasporta l'esperienza maturata a Roma e il monumentalismo scenografico di tavolozza chiara, ma di composizione tumultuosa, nella cupola e nella volta dell'abside di San Biagio a Modena. A leggere il De Dominici la chiamata a Modena sarebbe in relazione ai rapporti con il Guercino con il quale aveva condiviso la considerazione del Cardinal Pallotta: «Si rallegrò il Guercino della venuta del Cavaliere e l'accolse in casa sua con molta amorevolezza trattandolo non solamente da discepolo, ma da Congiunto, ed essendo egli stato richiesto dàFrati Carmelitani della città di Modena a voler dipingere la loro Cupola, e trovandosi troppo carico d'importantissime commissioni propose à Frati il Cavalier Calabrese suo Discepolo» (De Dominici 1742-1745, III, p. 325).

Tutto il mondo romano, da Lanfranco a Domenichino a Bernini, si riversa nella cupola che poggia su pennacchi di forte suggestione guercinesca. Nel concerto di angeli dipinto nel catino absidale è più stretto il rapporto con Guido Reni, nella stessa eterea idealizzazione degli angeli musicanti della Cappella di Santa Silvia in San Gregorio al Celio a Roma. Mattia Preti resta a Modena fino alla Pasqua del 1652. Tornato a Roma, dipinge con il fratello gli affreschi sopra le entrate di destra e di sinistra della chiesa di San Carlo ai Catinari. È quasi un commiato, dopo anni di vita romana.

Comincia infatti nel 1653, come era stato per Caravaggio, una stagione napoletana.

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