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Le lacrime del re che ci fanno commuovere

Con la sua emozione Juan Carlos si è mostrato consapevole di aver concluso un compito

Le lacrime del re che ci fanno commuovere

La cerimonia dell'abdicazione di re Juan Carlos di Spagna sarà ricordata, nel cuore e nella memoria di tanti, per avere associato due elementi che di rado stanno bene insieme: la solennità e l'atmosfera rituale e quasi sacrale che, soprattutto in un Paese di multisecolare tradizione e di grande e gloriosa storia quale è la Spagna, avvolge gli eventi dai quali è segnata la vita nazionale; e insieme la spontaneità e la sincerità d'un pianto regale. Che non è stato il pianto d'una abdicazione forzata e segnata dalla sconfitta, quale fu quella di Carlo Alberto di Savoia (Vittorio Emanuele III non pianse). Juan Carlos non se ne va tra le macerie, il figlio Felipe regnerà da re vero e non, come Umberto, da effimero re di maggio. Eppure quest'omone a volte quasi eroico e a volte molto sgradevole non ha potuto trattenere le lacrime.

Non per il trono perduto, che egli stesso ha voluto abbandonare. Ma, penso, per essere diventato consapevole della sua ingombrante e ormai inadeguata presenza in un mondo dove tutto è cambiato e anche le dinastie più importanti devono fare i conti con altri rampanti vip e con il gossip. Juan Carlos affrontò tanti ed enormi problemi, dalla crisi economica al separatismo catalano e alle effervescenze repubblicane. Con orgoglio Juan Carlos, intronizzato dal caudillo Francisco Franco, poteva dire dì aver defascistizzato la Spagna senza consegnarla ai demagoghi di sinistra e ai golpisti di destra, tipo colonnello Tejero. Ma l'immagine del giovane re salvatore della patria s'era andata via via intorbidando. Perché il pericolo di nuove tirannie s'era ormai dissolto e perché, tra battute di caccia all'elefante e amorazzi con cacciatrici, la maestà regale aveva ceduto il posto a sregolatezze banali: mentre la regina Sofia esemplarmente teneva alto, lei greca, il vessillo dei reyes catolicos.

Del suo rango e dei suoi doveri Juan Carlos è stato pienamente degno nel congedo di ieri. Ha lasciato intendere, con quel volto rigato di lacrime, d'essere pienamente consapevole della necessità d'un indispensabile tramonto. Si è visto, dietro la compostezza cerimoniale, il travaglio di un uomo che, approdato alla vecchiaia, avverte i ricordi, i rimpianti, i rimorsi che alla vecchiaia s'accompagnano.

Tra le monarchie sopravvissute, lasciate da parte quelle simboliche alla scandinava, e quelle festaiole della roulette e dei paradisi fiscali, ne rimangono pochissime che hanno una valenza politica. L'ha -seppure tramite il suo primo ministro e in stile museo delle cere- Elisabetta d'Inghilterra, l'aveva fino a mezzanotte di ieri Juan Carlos, elemento insieme d'unità e di divisione in un Paese che generò un impero, una lingua e una cultura sui quali non tramonta mai il sole. Juan Carlos non finirà ai giardinetti, come i pensionati comuni. Non sappiamo esattamente cosa farà del suo ruolo fastoso e ingrato di emerito alla Ratzinger.

Sappiamo per averlo visto che è capace di commuoversi, e questo commuove noi.

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