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E i filorussi fanno la guardia alle statue di Lenin

Le fazioni pro Mosca non cedono. Dopo il successo di Sochi, scelte cruciali per Putin

E i filorussi fanno la guardia alle statue di Lenin

Si chiudono le Olimpiadi e Putin può concedersi un sorriso di piena soddisfazione: i Giochi invernali sono stati un successo organizzativo e sportivo, la Russia ha conquistato il primo posto assoluto in fatto di medaglie, il paventato sanguinario show dei terroristi islamici non c'è stato. Anche lo Zar Vladimir, dunque, può appuntarsi una virtuale medaglia al petto.
A pochi chilometri da Sochi, però, il terremoto politico che ha sconvolto l'Ucraina lascia a Putin poco tempo per gloriarsi: c'è una crisi gravissima da affrontare, una crisi che potrà avere sbocchi anche drammatici per gli equilibri internazionali e perfino per il suo stesso potere personale.

Inutile girarci attorno, il Cremlino ha subito un colpo molto duro con la caduta ignominiosa del suo proconsole a Kiev, quel Viktor Yanukovich che prima di fuggire a bordo di un elicottero in perfetto stile Ceausescu (e certamente per evitare la stessa fine del dittatore rosso di Bucarest nel 1989) aveva fatto sparare sui suoi oppositori lasciando decine di morti nelle piazze della capitale e un pessimo ricordo. In questi giorni Putin ha tenuto un profilo bassissimo, non interferendo nel corso degli eventi a Kiev e lasciando al suo ministro degli Esteri Lavrov il compito di accusare l'opposizione ucraina di non aver rispettato gli impegni sottoscritti all'indomani dei massacri. C'erano le Olimpiadi da chiudere in bellezza, ma ora la musica cambierà.
Il problema è vedere su quali toni si farà sentire il Cremlino. Seguirà un percorso prudente, quello indicato dalle dichiarazioni congiunte con la cancelliera tedesca Merkel in cui si afferma l'impegno comune di Russia e Germania affinché sia preservata l'integrità territoriale dell'Ucraina? Oppure ignorerà i moniti di Obama e darà ascolto ai falchi del nazionalismo russo, frustratissimi per i rovesci patiti in questi giorni e già all'opera in Ucraina, arrivando a usare la forza militare nel Paese del «vicino estero» ex sovietico?

I segnali di una volontà di rivincita sono molteplici e ben visibili: in Crimea, provincia russa regalata al'Ucraina per un capriccio dell'allora leader sovietico Krushchev negli anni Cinquanta, migliaia di persone si iscrivono alle milizie di autoprotezione russa («in caso di necessità»), e a Sebastopoli - formidabile porto militare in parte affittato alla Russia che vi trattiene la sua Flotta del Mar Nero - una folla con bandiere ucraine, russe e della flotta ha sfilato gridando ai «fascisti che hanno preso il potere a Kiev» e che intendono « privare i russi dei propri diritti e della cittadinanza».

Qualcosa di vero in questo allarme, lanciato da un'etnia che in epoca sovietica aveva russificato a forza una quindicina di Paesi oggi indipendenti, c'è: ieri il Parlamento di Kiev ha cancellato la legge (voluta due anni fa dal presidente Yanukovich) che aveva fatto diventare il russo seconda lingua ufficiale dell'Ucraina.

La corposa minoranza russa è in allarme e la sua reazione più plateale si è vista ieri a Kharkiv e a Doneck, dove folti gruppi di persone hanno montato la guardia alle statue di Lenin in città, minacciate di distruzione perché sentite come simbolo del potere russo e sovietico insieme, oggi più che mai sotto attacco.

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