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Palestina all'Onu, Obama si riavvicina allo Stato ebraico

Per il presidente dell'Autorità palestinese Mahmud Abbas è un trionfo politico; per il premier israeliano Netanyahu e il Presidente americano Obama uno scacco politico

Palestina all'Onu, Obama si riavvicina allo Stato ebraico

Il 29 novembre è la data della creazione dell'Onu di due Stati per secoli inesistenti: Israele nel 1947, Palestina nel 2013. Per il presidente dell'Autorità palestinese Mahmud Abbas è un trionfo politico; per il premier israeliano Netanyahu e il Presidente americano Obama, opposti al riconoscimento della Palestina in «Stato Osservatore» all'Onu, uno scacco politico. Le ragioni che uniscono i due leader sono evidenti. La creazione dello Stato di Palestina mette di fatto fine agli accordi di Oslo del 1993 su cui da vent'anni si fondava la ricerca americana ed europea di risolvere il conflitto medio orientale e vanifica la speranza israeliana di continuare a mantenere l'occupazione della Cisgiordania.

Le apparenze sono ingannevoli. Il trionfo di Mahmud Abbas è personale, non nazionale. Ne aveva gran bisogno per legittimare la sua presidenza (mai rinnovata nel 2005), per riparare allo schiaffo infertogli da Hamas col colpo di mano a Gaza nel 2007 e da Netanyahu con la continuazione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania. È vero che uno Stato palestinese anche se osservatore avrebbe diritto di appellarsi contro Israele alla corte Internazionale dell'Onu aprendo la strada ad una condanna del Consiglio di Sicurezza, cosa fattibile da qualsiasi altro Stato come più volte dimostrato (e reciproca per Israele). Quello che uno Stato palestinese non potrà fare è trasformare il suo territorio in base di attacco contro Israele come fecero impunemente Al Fatah prima e Hamas poi a Gaza in virtù del principio sinistroide che i movimenti di liberazione sono solo «moralmente e ideologicamente» responsabili.
Lo scacco di Netanyahu è più diplomatico che politico. Le sue pressioni sui membri dell'Onu contro il riconoscimento dello Stato di Palestina sono fallite, dimostrando il suo isolamento e l'inefficacia delle minacce di ritorsione. C'è da credere che ora Gerusalemme userà «voce grossa usando bastoni piccoli» per «punire» Mahmud Abbas. Il quale si rimangerà la promessa di non tornare alla tavola di negoziati se Israele non congelerà gli insediamenti in Cisgiordania (che ora probabilmente aumenteranno). Uno «scacco» che avvicina Netanyahu al Presidente Obama (di cui a Gerusalemme si temevano le pressioni nel secondo mandato presidenziale) col risultato che i palestinesi perdono l'appoggio attivo della diplomazia americana.

Le prossime settimane diranno se il conflitto peggiorerà o meno. Tre cose sono certe: il conflitto palestinese perderà la sua centralità; l'Europa divisa e impotente perderà ancora di più influenza; il petrolio arabo perde il suo peso. Quest'ultimo fatto, non il riconoscimento dello Stato palestinese, rappresenta per Gerusalemme un cambiamento tettonico. È la fine della delegittimazione e emarginazione di Israele, iniziata a causa dei palestinesi nel 1973 col ricatto petrolifero arabo. L'America se ne sta liberando e Israele sta tornando in simpatia grazie al suo sviluppo tecnologico ed energetico.

Il nemico resta il nucleare iraniano su cui Obama e Netanyahu si trovano d'accordo.

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