Guerra Libia

In prima fila al comizio di Gheddafi Così il raìs lancia la controffensiva

Lo show di tre ore del Colonnello: arriva su una minicar con l’ombrello bianco e il pellicciotto sfilando davanti alle telecamere. La sua sfida: "Se ci attaccano sarà una strage". E minaccia: "Il petrolio? Piuttosto lo dò ai cinesi"

In prima fila al comizio di Gheddafi 
Così il raìs lancia la controffensiva

La Libia è in rivolta e Muammar Gheddafi si presenta in pubblico alla guida di una piccola macchinetta elettri­ca, come quelle usate dai leader mondiali al G8 del­l’Aquila. Se non fosse per il codazzo di una ventina di fuoristrada bianchi immacolati e le facce truci delle guardie del corpo sembrerebbe di trovarsi su un campo da golf.

Il colonnello vuole dimostrare di avere in pugno la situazione. Si fa immortalare dalla stampa internazionale mentre alza il braccio per inneggiare all'oramai ossidata rivoluzione iniziata con un golpe oltre 40 anni fa. E con l'altra mano tiene il volante dell'incredibile minicar. Abiti tradizionali da beduino e turbante color sabbia, non si separa dal suo ombrellone bianco, che aveva già sfoggiato. Sul sedile ha una pellicciotta un po’ da coatto e sembra godersi veramente lo show mentre sfila davanti ai giornalisti. L'occasione è l'anniversario della gloriosa Jamahiriya, la repubblica araba e socialista fondata da Gheddafi il 2 marzo 1977, che ora rischia di far la fine di uno spezzatino.

In un salone enorme con pesanti tende rosse e bianche lo attendono circa 600 persone, i rappresentanti dei Comitati popolari, una specie di assemblea corporativa inventata dal colonnello per un legame diretto con il popolo. Come il grande capo entra in sala parte il clima da stadio con la platea che rimbomba al grido di «Allah, Muammar, la Libia e basta». Le donnone con il velo verde, colore islamico e della rivoluzione, sono le più scatenate. A un sostenitore indefesso, diventato paonazzo, sembra scoppiargli la giugulare tanto grida. Dopo un quarto d'ora di caos le nerborute guardie del corpo respingono i fan di Gheddafi e i giornalisti.

Il colonnello si siede dietro un tavolo massiccio, con dei mazzi di fiori rossi e bianchi, un po’ kitsch. Quando il colonnello prende la parola è un po' una delusione. Non ha più i 27 anni da giovane capitano che rovesciò la monarchia. La voce è un po' impastata e rauca. Poi comincia a sciogliersi con le frasi a effetto che gli vengono sempre bene: «Volete diventare schiavi come ai tempi degli italiani? Non lo accetteremo mai. Siamo pronti a una guerra sanguinosa e migliaia e migliaia di libici moriranno se gli Stati Uniti e la Nato invaderanno la Libia». I rappresentanti del popolo all'inizio vanno in visibilio per ogni parola. Poi il colonnello li fa smettere tamburellando sul microfono. Gheddafi si vanta, come ha sempre fatto, di aver «costretto l'Italia a pagare i danni» del colonialismo.

Il colonnello sostiene che non può dimettersi, come chiedono le potenze straniere, perché «sono solo un simbolo del mio popolo». E poi ribadisce: «Non lascerò mai la Libia». Forse gli occidentali hanno venduto la pelle dell'orso prima di averlo accoppato. Il fluviale discorso pronunciato ieri è un messaggio a tutti che rimane in sella e non mollerà facilmente. La teoria che preferisce è quella della cospirazione per accaparrarsi il petrolio delle Libia. Il colonnello promette di «combattere fino all'ultimo uomo e l'ultima donna» per difendere i pozzi dalle grinfie straniere. Si chiede «perché le aziende italiane hanno lasciato il Paese? Noi non li abbiamo cacciati ». E minaccia di affidare l'oro nero a cinesi e indiani. In prima fila il premier libico Al-Baghdadi Ali al-Mahmud e altri suoi ministri non applaudono mai.

Tantomeno quando Gheddafi bolla come «un furto» il congelamento dei suoi beni in mezzo mondo. Nessuno si mette a ridere alla rivelazione del colonnello del suo stipendio: 465 dinari, meno di 300 euro. Ai ribelli di Bengasi e dintorni promette la carota dell'amnistia, se consegneranno le armi e il bastone dell'assedio: «Cessate la rivolta o rimarrete senza cibo, ospedali e servizi ». All'Europa manda a dire che «senza di noi torneranno i pirati e i terroristi nel Mediterraneo ». Tutto è accaduto per colpa di Al Qaida. Il colonnello ogni tanto si ferma ad asciugarsi il sudore con un fazzoletto rosso o a bere un sorso d'acqua, ma più passa il tempo più si infervora. Dopo la seconda ora di discorso i giornalisti sono ko, ma la platea tiene duro pur agitandosi di meno. Gheddafi ne ha per tutti compreso «il raìs dell'Italia» Silvio Berlusconi, che nei giorni scorsi lo aveva dato per spacciato. «Gli ricordo che io e la mia famiglia siamo la Libia », sbotta il colonnello.

Dopo quasi tre ore arriva alla fine e lancia la minaccia: «Siamo pronti a consegnare le armi a uno, due o tre milioni di persone per cominciare un altro Vietnam». I rappresentanti popolari della sicurezza, in uniforme della polizia, sono impassibili. Il colonnello Abdul Hamid, però, ammette: «Le notizie delle diserzioni ci fanno paura, non aiutano certo il morale ». Gheddafi se ne va a bordo della minicar circondata da gente armata. Per farsi largo nella calca di giornalisti suona il clacson a ripetizione in un clima surreale. Su uno dei fuoristrada della scorta si intravede una biondona. Dev' essere l'infermiera ucraina che segue da sempre il colonnello. Circolava la voce che fosse fuggita, ma almeno lei è ancora al fianco di Gheddafi.
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