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Così il vecchio emiro del Qatar ha fiutato (in anticipo) la svolta

Ha abdicato in favore del figlio e ha silurato il potentissimo premier che foraggiava Morsi

A Doha era semplicemente Hbj. A Londra Hbj - alias Sheikh Hamad bin Jassim bin Jaber Al Thani - era lo sceicco capace di comprarsi i grandi magazzini Harrods, mettersi in tasca le quote del London Stock Exchange e finanziare la costruzione dello Shard, il palazzo più alto d'Europa. Ma non solo. Grazie alle sue politiche spregiudicate - quello sceicco seduto da anni sulle poltrone di premier e di ministro degli Esteri del Qatar - aveva trasformato il piccolo emirato in una potenza. Una potenza in grado, grazie ai miliardi della Qatar Investment Authority - di comprare la squadra del Paris Saint Germain, acquisire quote in Volkswagen e Porsche, fornire armi ai ribelli siriani, far cadere Gheddafi e tenere in piedi la disastrata economia egiziana.

Guarda caso il potere di Hbj si è eclissato solo pochi giorni prima della caduta di Morsi. Il 25 giugno scorso - dopo aver annunciato l'abdicazione a favore del figlio 33enne Sheikh Tamim - l'emiro del Qatar Hamad bin Khalifa Al Thani ha provveduto a sostituire anche l'intoccabile Hbj. La rimozione di quell'uomo chiave sembra destinata a cambiare anche l'aggressiva politica dell'emirato. Giovedì il nuovo emiro Sheikh Bin Ahmal Al Thani non si è fatto problemi a felicitarsi con Adly Mansour, il capo della corte costituzionale egiziana nominato presidente dai militari golpisti.

Il telegramma di cortesia non è stato solo un gesto di «real politik». Il colpo di mano dell'esercito egiziano e la caduta di Morsi sono stati agevolati, probabilmente, anche dall'allontanamento di Hbj. Un allontanamento non facile. Anzi così complesso da aver costretto l'emiro 61enne a sacrificare se stesso per permettere il cambio ai vertici dell'esecutivo e della politica estera. Del resto l'emiro Hamad Bin Khalifa e il cugino Hamad Bin Jassim erano i due volti del Qatar. Se Bin Khalifa era il sovrano illuminato, Hbj ne era il grande stratega. La sua nomina a ministro degli Esteri risaliva al 1992, quella a premier al 1997. Pensare di passare lo scettro ad un inesperto figlio 33enne lasciando tanto potere nelle mani del navigato Hbj non era possibile. Anche perché grazie al titolo di amministratore delegato del «Qatar Investment Authority» Hbj era il controllore delle ricchezze del paese.

Proprio per questo era uno dei pochi in grado di garantire la sopravvivenza economica di Morsi. Grazie alla benevolenza di Hbj, grande padrino della rinascita dei Fratelli musulmani, il presidente egiziano aveva potuto contare su finanziamenti per circa 7 miliardi di dollari. Finanziamenti che avevano permesso di far fronte alla crisi generata dalle inadeguate politiche dell'esecutivo islamista.

Ma quei miliardi gettati nelle sgangherate casse egiziane non erano il principale dei problemi. La contraddizione più stridente generata dalla gestione di Hbj era l'imbarazzante contrasto tra le due immagini del Qatar. Da una parte quella aperta e riformatrice offerta da un emirato presente su tutti mercati finanziari e pronto ad ospitare la Coppa del Mondo di calcio del 2022. Dall'altra quella oscura e inquietante ispirata da un regime pronto ad appoggiare il fondamentalismo in Tunisia, Libia, Egitto e Siria.

«Le armi - ripeteva Hbj - sono probabilmente l'unica via per raggiungere la pace in Siria».

Ma come avevano incominciato a far notare gli «amici» di Washington, Parigi e Londra le armi pagate con gli assegni firmati da Hbj finivano troppo spesso negli arsenali dei ribelli siriani più vicini ad Al Qaida.

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