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I coniugi Clinton e gli Obama: amore pubblico, odio privato

Davanti alle telecamere pacche sulle spalle e sorrisi complici In realtà tra le due coppie presidenziali non corre buon sangue 

I coniugi Clinton e gli Obama: amore pubblico, odio privato

Qualcuno giura di avergli sentito dire perfino: «Ma chi: quel cretino?», e la cosa buffa di questo aneddoto è che non si è mai capito se fosse stato Bill Clinton a dare del cretino a Barack Obama o viceversa. I due presidenti non si sono mai molto piaciuti, questo è sicuro. E lo stesso vale per le loro mogli, due sorridenti murene dove la first lady in carica, la cinquantenne gigantessa dell'Illinois, guarda con un filino di disprezzo, dall'alto del suo palestrato metro e ottanta, la sessantasettenne «massaia del Sud» che arranca verso il metro e 68 con tre dita di ciccia al girovita e una pappagorgia da matrona arrivata. In pubblico, mogli e mariti affettano gran pacche sulle spalle, come no? E sorrisi complici e affettuosi. Ma appena le telecamere si spengono, via: i due di Chicago (gli Obama) da una parte; i «campagnoli» dell'Arkansas (i Clinton) dall'altra.
Odio privato e amore pubblico. Eccolo qui, in due parole, il senso del libro («Blood Feud», si intitola, qualcosa come «La faida») scritto dal giornalista Edward Klein e in uscita nei prossimi giorni negli Usa. Il New York Post ne pubblica degli estratti. Eccone uno. «Odio Obama più di chiunque altro abbia mai conosciuto», pare abbia detto Bill Clinton a un suo amico, raccontandogli di essersi sentito dare del razzista da Obama durante la campagna presidenziale del 2008. Di tutto il resto non gli è mai importato granché, forte degli anni di prosperità che la sua presidenza regalò agli Stati Uniti, di fronte agli anni di vacche magre succedutisi sotto la presidenza Obama. Ma quella battuta gratuita, disse Bill, lo aveva ferito profondamente, e non gliela avrebbe perdonata.
Frecciatine, sarcasmi, sopraccigli snobisticamente alzati da una parte e dall'altra. E un gossip che spesso raggiunge livelli da proiettili al curaro. Dove la Clinton, conversando con un'amica, avrebbe una volta alluso al leggero prognatismo di Michelle Obama addebitandolo a certi trasporti nei confronti del marito, intesi (i trasporti) a evitare quel che a lei (Hillary) era capitato con Bill al tempo della comparsa sulla scena della stagista Monica Lewinsky, qualcuno ricorderà.
Michelle, dicono, la ripaga con la stessa moneta, sfottendo Hillary a sangue non appena se ne presenta l'occasione. Uno dei suoi sport preferiti, si legge nel libro, è spettegolare con la sua amica e consulente Valerie Jarrett. Il momento preferito è la sera, quando alla Casa Bianca il ritmo forsennato di giornate convulse, fitte di impegni, si placa. Allora, spaparanzata su un divano, con un bicchiere di chardonney in mano, Michelle e Valerie passano in rassegna il gossip di giornata. Si parte da quello che hanno fatto le figlie della first lady, Sasha soprattutto, e si finisce immancabilmente sul loro soggetto preferito, la «massaia di Little Rock», nome in codice: Hildebeest, lo gnu con la criniera arruffata che vive nel parco del Serengeti, in Africa.
Alla base c'è una sorta di invincibile gelosia di mestiere che divide Bill Clinton da Obama. Un'antipatia che raggiunse uno dei suoi punti più alti due anni fa, durante l'ultima campagna elettorale, quando i consiglieri di Obama lo convinsero che per vincere era necessario l'appoggio di Clinton. Fu così che, nel settembre del 2011, Obama invitò Clinton a tirare due palle su un campo da golf. «Non ne ho proprio voglia», disse in quell'occasione un riluttante Bill a Hillary. «Ci sono stati due presidenti dopo di me, e Obama, a differenza di Bush, non ha mai sentito il dovere di sentire la mia opinione, sui dossier più scottanti». Quella chiacchierata sul campo finì con una gelida stretta di mano. Clinton si era messo a declamare le doti di Hillary, e quanto sarebbe stato bello vederla al posto di presidente, alle elezioni del 2016.

Al che Obama, alzando un sopracciglio, rispose gelido: «Se è per questo, anche Michelle non sarebbe mica male…».

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