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I missili di Mosca tengono in piedi Assad

Ma al tempo stesso Putin lavora con l'incerto Obama per una conferenza di pace

I missili di Mosca tengono in piedi Assad

Oltre che drammatica, la crisi siriana sta diventando schizofrenica. Da un lato, Usa e Russia si sono accordati per cercare di organizzare una conferenza di pace ai primi di giugno, con la partecipazione sia di esponenti del regime sia dei ribelli, per un estremo tentativo di trovare una soluzione negoziata. Dall'altra, Mosca rifornisce il suo alleato Assad di missili modernissimi che renderebbero pressoché impossibile all'America e ai suoi alleati -anche se lo volessero - di imporre una «no fly zone» e per buona misura invia nel Mediterraneo orientale una squadra navale quale non si vedeva dai tempi dell'Urss. Intanto, Assad riconquista una parte del territorio perduto, mentre i ribelli si dividono in fazioni spesso in lotta tra loro: il comandante del Libero esercito siriano Salim Idris, su cui si appoggia l'Occidente, non ha quasi nessuna autorità sulle formazioni ribelli, tra cui acquista invece sempre maggior forza Jabhat al Nusra, che ha dichiarato la propria affiliazione ad Al Qaida e attrae combattenti anche da altri Paesi arabi.

Per accordarsi, Mosca e Washington hanno fatto ciascuna una concessione: gli americani hanno rinunciato alla pretesa che Assad si dimetta prima dell'inizio del negoziato, i russi ammettono che un accordo potrebbe anche contemplare la fine del regime, a patto che i loro interessi siano tutelati. I due hanno un interesse comune: che, nel caos della guerra, elementi vicini al terrorismo islamico non si impadroniscano delle armi chimiche del regime per utilizzarle poi in attentati in Occidente e nel Caucaso. Ma, anche se, dopo vari colloqui tra i ministri degli Esteri Kerry e Lavrov, le loro intenzioni appaiano serie, entrambi incontreranno grandi difficoltà a convincere i rispettivi «protetti» a partecipare alla conferenza; per di più, qualsiasi accordo sarebbe una scatola vuota senza la partecipazione degli esponenti jihadisti, che hanno già escluso di sedersi a un tavolo con i rappresentanti di Assad.

Obama è in imbarazzo: non può ignorare una crisi che ormai sta coinvolgendo l'intera regione, non può permettersi un intervento diretto, non può rischiare di armare ribelli vicini ad Al Qaida e comunque non ha interesse che al regime di Assad, per quanto nemico, subentri un governo islamico estremista. Inoltre, il livello di ferocia raggiunto dalla guerra civile, con i ribelli sunniti che rivaleggiano ormai per crudeltà con i lealisti alawiti, rende una riconciliazione tra le parti quasi impossibile.

Nelle cancellerie, si fa perciò strada l'ipotesi di una divisione di fatto della Siria in tre: una striscia che va dalla fascia costiera a nord del Libano fino al confine giordano sotto Assad, l'estremo nord-est controllato dai Curdi e il resto a governo sunnita: qualcosa di simile a quanto avvenne in India nel'47, con trasferimenti di popolazione per separare le varie sette.

Ma sarebbe una soluzione traumatica per l'intero Medio Oriente; e se si sta già delineando sul terreno, sarebbe difficile quanto pericoloso da attuare sul piano diplomatico.

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