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Morsi al capolinea tratta coi generali

Il presidente egiziano Mohammed Morsi fatica sempre di più a tenere saldo il suo potere. Scade questo pomeriggio l'ultimatum imposto dall'esercito nei confronti del raìs, che ieri sera ne ha chiesto il ritiro, rivendicando la sua legittimità costituzionale e precisando di rifiutare ordini dai militari. Ma cresce l'isolamento del numero uno: ieri si sono dimessi il settimo ministro del governo, tre portavoce della presidenza e tre governatori. La piazza anti-Morsi si è riempita un'altra volta. Centinaia di migliaia di persone hanno ripetuto ancora a una voce sola «Irhal» - vattene in arabo. L'esercito, che ripete di non voler compiere un colpo di Stato, sarebbe pronto oggi, in caso di assenza di compromessi, a presentare una road map. Si sono rincorse inoltre durante la giornata di ieri voci di possibili dimissioni del premier Hisham Kandil, smentite dalla presidenza. Il capo di Stato maggiore Abdelfattah Al Sisi avrebbe chiesto esplicitamente a Morsi di dimettersi per evitare spargimenti di sangue: che ieri sera si sono purtroppo verificati nella capitale, in scontri tra contrapposte fazioni nel sobborgo di Giza sono morte almeno 7 persone, e fonti mediche riferiscono di decine di feriti da armi da fuoco.
Proprio Al Sisi lunedì ha imposto a Morsi l'ultimatum dell'esercito: soddisfare le domande della piazza entro 48 ore. E la road map dei militari, i cui dettagli sono stati rivelati alla Reuters da fonti anonime interne all'esercito, andrebbe incontro a molte delle richieste dei manifestanti: sospensione della Costituzione, scioglimento del Parlamento a maggioranza islamista, formazione di un consiglio di transizione di tecnocrati ed elezioni anticipate.
I punti della road map sono simili alle richieste di Tamarrud - il movimento di «Ribellione» dietro alle proteste di piazza anti Morsi di questi giorni, ideatore di una petizione per la rimozione del raìs che avrebbe raccolto secondo gli organizzatori 22 milioni di firme. E Tamarrud, dopo aver ricompattato un'opposizione nata dalla rivoluzione del 2011 divisa e poco efficace, continua a riempire in queste ore le piazze: ieri centinaia di migliaia di persone sono scese ancora una volta nelle strade sia a Midan Tahrir sia nei pressi del palazzo presidenziale. Le opposizioni hanno scelto come portavoce il Premio Nobel Mohammed ElBaradei, già a capo del Fronte di salvezza nazionale, un movimento che raccoglie diversi gruppi rivoluzionari.
Nelle strade, nelle città del Paese il presidente e il suo gruppo, i Fratelli musulmani, non sono però rimasti da soli. Il movimento ha chiesto ieri ai suoi sostenitori di protestare contro quello che definiscono un «colpo di Stato» contro un leader democraticamente eletto soltanto un anno fa. Tra i capi islamisti c'è chi ha addirittura chiesto di «cercare il martirio per prevenire questo colpo di Stato». Le vittime di ieri sera confermano che questi appelli sono stati ascoltati.
Mohammed Morsi ha rifiutato l'ultimatum dell'esercito. La giornata di ieri sarebbe stata fitta di consultazioni politiche per trovare una soluzione all'impasse: due fronti opposti, sempre più polarizzati - i Fratelli musulmani e il presidente da una parte, la piazza raccolta attorno a opposizioni emerse dalla rivoluzione dall'altra.
In mezzo c'è l'esercito. I militari - che la Fratellanza nei mesi al potere non è mai riuscita a controllare - non hanno mostrato interesse, dopo i violenti e tristi mesi della loro gestione del potere, a tornare alla guida della politica nazionale. Hanno interesse però a bloccare ogni tipo di instabilità che possa minacciare il loro vasto impero economico.
Morsi ha ricevuto anche una telefonata dagli Stati Uniti. Il presidente americano Barack Obama ha detto al leader vacillante che la crisi può essere risolta soltanto attraverso il processo politico.

Fonti della sua Amministrazione hanno rivelato alla Cnn che Washington nelle ore scorse avrebbe consigliato al raìs di anticipare le elezioni e avrebbe avvertito l'esercito - destinatario di 1,3 miliardi di dollari di aiuti militari americani - di evitare il rischio di un colpo di Stato.

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