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Il nuovo presidente scelto dai disoccupati (più storia e geografia)

I repubblicani hanno le idee, i democratici l’appeal. Così a decidere sarà il lavoro. Mai così a picco

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Barack Obama ha già smesso di sorridere. S'è preso la sua notte da star e però s'è risvegliato col cerchio alla testa. Legge dati che conosceva, ma che è riuscito a tenere in un cassetto fino all'ultimo: la disoccupazione di agosto al 8,1 per cento, meglio delle aspettative, ma sempre troppo lontana da un livello accettabile. Novantaseimila posti di lavoro creati sono pochi per provare sfruttare l'onda del discorso finale della convention democratica. Smontato il palco e spente le luci Obama piomba in una campagna elettorale difficile. È cominciata ieri, di fatto. C'è un prima, sì. Però c'è soprattutto un poi: i due mesi che separano l'America dal voto del 6 novembre saranno i più importanti. Obama contro Romney, ovunque e comunque. Chi sta meglio, adesso? Le convention hanno rivelato due candidati che per motivi diversi hanno convinto entrambi fino a un certo punto. Romney penalizzato dal suo limite originario: la rigidità, l'incapacità di entrare in vera sintonia con il pubblico, la scarsa propensione a creare entusiasmo, a porsi come un trascinatore. Obama, invece, messo giù dai fatti: l'America non funziona. Non è in declino, come ha detto sul palco di Charlotte. Ma comunque non sta bene. Quell'otto virgola uno di disoccupati è una dannazione. Nessun presidente dal dopoguerra in poi è riuscito a farsi rieleggere con un livello di disoccupazione superiore al 7,2 per cento. Non è solo statistica, è storia. Ed è il pensiero fisso della Casa Bianca. Obama ha parlato all'America sperando di andare a riprendersi i voti del suo elettorato deluso. S'è diviso i compiti con i sodali: «Bill Clinton ha parlato ai moderati, il vicepresidente Joe Biden ha parlato agli indipendenti, il presidente ha parlato alla base democratica», ha scritto ieri David Frum.

Obama ha fatto Obama fino a un certo punto. Perché lui non ha il problema di Romney: lui è uno che sul palco sa stare come nessun altro, uno che sa parlare, uno che sa convincere. A Charlotte ha chiesto all'America di scegliere: il futuro, cioè lui, cioè i democratici; il passato, cioè Romney, cioè i repubblicani. È la sua visione di parte, ovviamente. E la porge agli americani sperando che stiano ancora con lui. Già, ma perché? Obama divora le telecamere, ha la voce, i tempi, le pause, ha tutto. Ma stavolta non dà risposte. E a dirlo non sono solo i repubblicani. Ieri persino l'Huffington Post ha giudicato il discorso del presidente un po' vuoto di contenuti. «Ce la faremo», ha detto Obama. Però non ha saputo spiegare come. Gliel'ha rinfacciato il Washington Post: «Il presidente ha affrontato molte più problematiche rispetto a Mitt Romney, per esempio il riscaldamento globale, e ha delineato nuovi obiettivi specifici - dalla creazione di un milione di posti nel manufatturiero all'assunzione di 100.000 professori di materie scientifiche e allo stop dell'aumento delle rette universitarie - ma non ha spiegato come raggiungere questi obiettivi».
Il dettaglio non è irrilevante. Anzi, per il momento è il perno di questa campagna elettorale che sembra dividersi così: i repubblicani hanno più idee, ma fanno fatica a riuscire a comunicarle; i democratici non ne hanno, ma sanno comunicare.

L'America aspetta, l'America spera. Comincia una battaglia contea per contea, città per città. Obama e Romney concentrati, come sempre avviene, negli Stati dove si decideranno le presidenziali. E lì, per ora, è in vantaggio il presidente: i sondaggi gli danno un piccolo margine non comunque sufficiente per sentirsi sicuro. La sfida si gioca su quelle visioni di cui ha parlato Obama dal palco di Charlotte: futuro contro passato che ovviamente per i Romney sono esattamente opposti. Lui è il domani, il presidente è ieri. I repubblicani hanno molte più chance di un anno fa. Questa era un'elezione scontata che s'è riaperta. E a riaprirla è stato sostanzialmente quel dato che ieri ha fatto male al presidente: quello sulla disoccupazione. Si gioca praticamente tutto lì. Oggi Obama ha più strade: Florida, Ohio, Colorado, New Hampshire, Nevada, Wisconsin. Un pugno di Stati e un pugno di elettori decideranno il destino di un Paese. Tutto immerso dentro la tradizione del Novecento e dell'inizio del Duemila, per la quale nessun presidente è riuscito a rimanere alla Casa Bianca se il tasso di disoccupazione era superiore al 7,2 per cento. È una sfida tra due uomini, tra due schieramenti, tra due idee.

È anche una sfida tra geografia e storia: se vince la prima, il presidente è Obama; se vince la seconda, tocca a Romney.

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