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Obama balbetta sui sexy scandali Difende i generali, ma non troppo

Il presidente rinnova la fiducia ad Allen ed esalta i passati successi di Petraeus. E le amanti? "Nell'inchiesta non entro"

Il presidente Usa Barack Obama
Il presidente Usa Barack Obama

Prende tempo Barack Obama. «Non voglio immischiarmi nell'indagine in corso», dice. «Ho fiducia nell'Fbi». E «al momento non ho alcuna prova che, in base al materiale che mi è stato mostrato, siano state diffuse informazioni classificate e che potrebbero avere un impatto negativo sulla nostra sicurezza nazionale». Anche l'emergenza debito pubblico si rivela per il presidente più facile da affrontare dello scandalo di sesso, spie e stellette che ha già travolto due supergenerali - il capo della Cia David Petraeus e il capo delle forze Nato in Afghanistan, John Allen - e rischia ora di trascinare anche l'Obama bis in un pantano politico e militare. Che il tema stia mettendo il presidente in forte difficoltà lo si capisce dal modo in cui il capo della Casa Bianca - ieri di fronte ai giornalisti per la prima volta dopo la rielezione - esita, quasi balbetta, di certo misura fino alle virgole le risposte sullo scandalo Petraeus. Obama fa il cauto e nulla dice su quando fu informato dello scandalo: «Aspetto a giudicare, non ci sono ancora tutte le informazioni necessarie».

Ma di informazioni - in queste ore infuocate in cui il presidente ha visto i vertici dei servizi segreti nella polvere e ha dovuto cambiare strategia e nomi della sua prossima nuova amministrazione - sul caso Petraeus ne stanno trapelando parecchie. A cominciare dalla notizia che in casa dell'amante del generale, Paula Broadwell, siano stati trovati dall'Fbi documenti top secret, dei quali resta ora da capire come la biografa del supergenerale sia venuta in possesso. L'amante di Petraeus - che ha fatto esplodere il caso con le sue e-mail anonime e minacciose nei confronti dell'altra donna di questo scandalo, Jill Kelley - avrebbe tra l'altro inviato diversi messaggi di posta elettronica anche al generale Allen, firmandosi con lo pseudonimo "KelleyPatrol" (pattuglia Kelley), in cui definiva l'amica della famiglia Petraeus una «seduttrice» e avvisava Allen di tenersene alla larga. Informazioni che si aggiungono al puzzle e che dovranno unirsi a quelle che emergeranno oggi quando Petraeus testimonierà volontariamente davanti al Senato per far luce sul tragico attentato di Bengasi, l'ombra politico-militare dietro alla storia di sesso e stellette. Una storiaccia a proposito della quale il presidente ieri è stato chiaro: Susan Rice, che «con molta probabilità sostituirà Hillary Clinton al Dipartimento di Stato» «non ha alcuna responsabilità sull'attentato in cui è morto l'ambasciatore americano». «Se John McCain o gli altri vogliono attaccare qualcuno per Bengasi, attacchino me, non attacchino un ambasciatore, è vergognoso».

Il presidente fa quadrato attorno alla sua squadra ma è evidente che si senta braccato dalle possibile rivelazioni sulla strage in Libia e dalle sue eventuali connessioni con la storia di sesso e spie. Eppure, mentre Obama definisce «doverose» le dimissioni di Petraeus (pur ricordando che l'America oggi è più sicura grazie a lui), difende il generale Allen, lasciando intendere di avere ragionevole convinzione che tra il capo delle forze Nato in Afghanistan, considerato un buon padre di famiglia, e la «terza donna» dello scandalo, Jill Kelley - che ieri ha invocato il suo ruolo di «console generale onorario» per la Corea del Sud per impedire a giornalisti e fotografi l'accesso alla sua proprietà - non ci sia stato un rapporto di lenzuola. Le e-mail tra i due - ed ecco l'ultima indiscrezione sullo scandalo - sarebbero state circa duecento, a fronte di migliaia di pagine scambiate, probabilmente molti allegati, cioè documenti che secondo il Washington Post non avevano nulla di scabroso, ma erano inviti a eventi mondani o copie di articoli di giornali. Il generale avrebbe risposto solo per cortesia.

Ma di questo dovrà dar conto nell'inchiesta che pende sulla sua testa.

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