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Reagan a Montanelli: "Grazie al Giornale"

Non parla volentieri con la stampa, ma per noi fa un’eccezione: "Volete un consiglio? Date libertà alle vostre imprese private"

Ronald Reagan con la moglie Nancy nel 1964
Ronald Reagan con la moglie Nancy nel 1964

Signor Presidente, il mio giornale è stato fra i pochi, in Europa, ad auspicare la sua vittoria nel 1980, a crederci, e ad esultarne quando la ottenne. Non le chiederà se giudica la sua prima presidenza un successo. Se non ne fosse convinto, non si sarebbe ripresentato. Mi dica piuttosto che cosa si propone di fare nei prossimi quattro anni, di diverso da ciò che ha fatto sinora.

«Desidero anzitutto ringraziare il Giornale per il suo sostegno e i suoi efficaci sforzi per spiegare ai lettori italiani i problemi più importanti della politica americana. Il suo giornale ha svolto un ruolo determinante nel promuovere la comprensione tra i nostri due Paesi. Ma per tornare alla sua domanda, le mie speranze in un secondo mandato devono essere viste alla luce di ciò che la nostra Amministrazione ha realizzato in questi anni. Quando assumemmo la carica nel 1980, gli Stati Uniti erano una nazione in crisi. Le nostre difese si erano indebolite. La nostra politica estera non aveva una direzione precisa. E con l’inflazione ben assestata su due cifre e i tassi d’interesse a livelli record, la nostra economia era nelle peggiori condizioni degli ultimi trent’anni. Entrammo in carica decisi a iniziare una nuova era, ed è questo che siamo riusciti a fare.

Oggi le difese americane vengono ricostituite in politica estera, gli Stati Uniti riaffermano il proprio ruolo di forza al servizio della pace e della libertà nel mondo. L’economia americana ha riacquistato la sua vitalità e sta entrando in una fase di forte espansione. Da quando siamo in carica, il tasso d’inflazione è diminuito di due terzi, il prime rate si è dimezzato, la disoccupazione ha registrato l’anno scorso la più sensibile diminuzione che si sia verificata in trent’anni, e oggi sono al lavoro più americani che in qualsiasi altro periodo della storia della nostra nazione. La cosa più importante, forse, è che l’America ha visto una rinascita della fiducia e della speranza. I sondaggi dimostrano che il nostro popolo è più fiducioso in se stesso e nel proprio Paese di quanto non sia mai stato negli ultimi cinque anni. Horace Busby, da lungo tempo osservatore della scena americana, ha avuto ragione nel dire: “Quel che abbiamo cominciato a udire in questo decennio è un meraviglioso coro di consensi”».

La ripresa dell’economia americana negli ultimi due anni è stata straordinaria. Ma la nostra, purtroppo, assai meno. Ha qualche ricetta segreta da confidarci?

«Posso solo darle quella ricetta che secondo noi ha funzionato al meglio negli Stati Uniti. Al momento di assumere la carica eravamo decisi a ridurre l’inflazione, a controllare la spesa pubblica, a diminuire l’intervento del governo nell’economia e a incoraggiare una lenta ma solida crescita monetaria. Questa strategia ha avuto successo. C’è stata una rinascita di iniziativa privata, con milioni di nuovi posti di lavoro e un maggior ottimismo per il futuro. So che il popolo italiano è pieno di risorse. Quello che vorrei consigliargli è di dare quella libertà che permetta all’impresa privata di svilupparsi».

Da noi non molti hanno capito il senso della sua battaglia per reintrodurre la preghiera nelle scuole americane. Lei è stato sconfitto in Congresso, ma insiste. Perché le sembra tanto importante che ai bambini americani non sia più proibito pregare la mattina a scuola?

«Il popolo americano capisce che nessun Paese può rimanere libero e forte se rinnega i valori fondamentali come la fede. Quando riusciremo a ripristinare la preghiera nelle scuole dichiareremo - ai nostri figli, a noi stessi e al mondo intero - che abbiamo riaffermato il diritto ad osservare le credenze che hanno reso grande la nostra nazione. La gente sta facendo conoscere la sua volontà, e io ho fiducia che un giorno non lontano l’emendamento per la preghiera nelle scuole sarà ratificato».

Lei ha compiuto 73 anni: se riconfermato, continuerà fino a 78 a esercitare un duro lavoro pieno di tensioni, mentre potrebbe godersi la vecchiaia senza preoccupazioni nel suo bel ranch in California. Chi glielo fa fare: ambizione, gusto di potere, convinzione di essere insostituibile, passione ideologica?

«La risposta è semplice: non mi piace lasciare un lavoro a mezzo. Nonostante tutte le realizzazioni di questi tre anni, c’è ancora molto da fare per preparare l’America al futuro. D’altra parte ho la sensazione che a 78 anni sarò sufficientemente giovane per godermi ancora per un pezzo il mio ranch».

1 giugno 1984

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