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Riportiamo a casa i marò sennò ce lo impedirà il prossimo leader indiano

Sondaggi unanimi: le elezioni di primavera vedranno il successo di Narendra Modi, ostile a una soluzione amichevole del caso

Riportiamo a casa i marò sennò ce lo impedirà il prossimo leader indiano

Portiamoli a casa finché siamo in tempo. E facciamolo con qualsiasi mezzo perché tra 4 mesi potremmo perderli per sempre. Stavolta non si tratta di semplici critiche al governo, ma di preoccupazioni assai concrete per la sorte di dei due marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. Preoccupazioni basate sull'analisi di quanto succede in India. E di quel che succedera dopo le elezioni parlamentari di primavera. Per capirlo basta dare un occhio alle previsioni e ai sondaggi in cui viene data per scontata la vittoria del Bharatiya Janata Party, il partito che fa dell'induismo la sua dottrina e del nazionalismo la propria bandiera. Ma quel che inquieta di più, e dovrebbe preoccupare molto la nostra diplomazia, è la nomina, praticamente certa, a primo ministro di Narendra Damodardas Modi. Questo signore salito alla ribalta della politica indiana dopo aver guidato per 13 anni lo stato del Gujarat, una delle locomotive dello sviluppo industriale indiano e terra natia di Gandhi, non è un leader qualsiasi. Oltre a definirsi nazionalista convinto e ad esser cresciuto tra le fila del gruppo paramilitare estremista Rashtriya Swayamsevak Sangh (Organizzazione Patriottica Nazionale), Modi è accusato di aver istigato i «pogrom del Gujarat», le violenze anti islamiche scoppiate nel febbraio 2002 nello Stato da lui governato e segnati dalla morte di oltre mille persone. Modi per quanto messo alle corde da Sanjiv Bhatt, un comandante della polizia del Gujarat che riferì d'essersi sentito impartire dal futuro premier l'ordine «d'infliggere una lezione ai musulmani» è stato scagionato dopo una frettolosa inchiesta affidata ad una squadra investigativa speciale dalla Corte Suprema.

Ma la nostra diplomazia dovrebbe temere le posizioni oltranziste tenute dal candidato premier nell'ambito della questione dei marò. Oltre a bollare come un «insulto» all'India i timidi tentativi dell'Italia di difendere i propri militari, Modi ha spesso invocato una politica più decisa e vigorosa sull'argomento. «Permettiamo a due italiani sotto processo di andare a votare mentre ai nostri cittadini nelle stesse condizioni non è permesso neppure di partecipare ai funerali della propria madre. Il modo in cui viene condotta questa faccenda è un insulto al nostro Paese» - ringhiava un anno fa Modi che ha più volte contestato la decisione di affidare alla Corte Suprema l'inchiesta e non ha esitato ad accusare l'Italia di «minacciare» l'India.

Con un personaggio simile al potere c'è da chiedersi non solo se i nostri due militari torneranno mai liberi, ma se la nostra diplomazia riuscirà a far valere l'accordo siglato dall'attuale esecutivo che esclude la possibilità di una sentenza capitale. Quanto sia vacuo e labile quell'accordo lo sta dimostrando in queste ore la mossa della Nia: nei giorni scorsi, l'agenzia federale antiterrorismo incaricata delle indagini sui due marò, non ha esitato a chiedere al ministero degli Interni «l'autorizzazione a procedere contro i due militari italiani» utilizzando una legge marittima che prevede la pena di morte in caso di omicidio. Una mossa seguita ieri dalla richiesta di revocare il regime di libertà vigilata che permette ai nostri militari di risiedere in ambasciata e sottoporli invece ad un'effettiva detenzione sotto l'autorità del Tribunale Speciale. Le proteste della nostra diplomazia hanno per ora bloccato il blitz della Nia spingendo il ministro della Giustizia, Kapil Sibal e quello degli Esteri, Salman Khurshid, a convocare un vertice a tre - tenutosi ieri a Nuova Delhi - con il collega degli Interni, Sushil Kumar Shinde, da cui dipende il Nia, al termine del quale è stata esclusa l'applicazione della pena di morte. Ma con Modi al potere gli scrupoli dell'attuale esecutivo indiano rischiano di trasformarsi in bei ricordi del passato.

E i nostri due marò in ostaggi prigionieri di un'ambasciata tenuta sotto assedio per ottenerne la consegna.

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