Crisi siriana

La vera guerra è tra Obama e Putin

Gelo al G20 di San Pietroburgo: i due leader siederanno distanti. La commissione Esteri del Senato Usa vota sì all'attacco

La vera guerra è tra Obama e Putin

«Ve l'avevo detto che non mi meritavo il Premio Nobel per la pace» ha ridacchiato ieri il presidente Obama durante una conferenza stampa a Stoccolma. Una battuta, una vacanza dalle incessante dichiarazioni di principio che caratterizzano questi giorni di preparazione all'ormai inevitabile attacco in Siria. Oggi comincia in Russia il G20, Obama e Putin dopo la crisi su Snowden, non hanno in programma incontri diretti, ma il loro dialogo a distanza assorda la comunità internazionale. Sul Medio Oriente si misura in queste ore l'abilità dei due e il destino del mondo: Obama vuole affermare la forza morale degli Usa, spazzare in poche ore ogni dubbio sull'egemonia occidentale sul quell'area. Putin sa che il suo alleato è diventato imbarazzante ma può contare su una robusta coalizione sciita e valuta in queste ore quanto la zampa dell'orso russo può essere ruvida, data la scarsa presentabilità dei suoi alleati Assad, Nasrallah e Khamenei. Quindi, mantenendo le posizioni, pure apre qualche spiraglio al presidente americano.

Obama ha ripetuto ieri: «Il mondo deve agire», dà per acquisito l'uso delle armi chimiche da parte di Assad, insiste che «l'approvazione Onu dell'azione militare non può essere una scusa per non fare niente». Sfida il mondo: «se ci sentiamo oltraggiati dalla strage degli innocenti, che faremo per contrastarla?». A Washington imperversa la battaglia dei suoi ministri, Kerry, Hagel e Dempsey, per convincere il Parlamento. Ieri sono riusciti a incassare il primo sì ai raid dalla commissione esteri del Senato (anche il repubblicano McCain ha votato a favore). Ormai è una questione di sopravvivenza morale. Obama spiega che non è lui ad avere messo la famosa «linea rossa», ma la comunità internazionale, che qui mette il suo onore, e d'un solo fiato ricorda che è tutta sua l'autorità, non del Congresso, cui tuttavia chiede sostegno.

Putin, col solito volto guascone e pietroso nello stesso tempo, decide di fare titoli, ma si capisce che non sa bene cosa fare: è pronto a sostenere l'azione militare contro la Siria se fosse sostenuta dall'Onu e se esistessero «prove al di là di ogni dubbio» che Assad abbia usato armi chimiche. Ma tutti sanno che l'Onu non ha mai potuto votare, per due anni, una risoluzione contro Assad a causa del veto di Mosca. Eppure erano noti i centomila morti e si conoscevano i responsabili. Ma Putin ha subito spiegato come la pensa: Assad non ha mai usato armi chimiche, senza prove si tratterebbe di un'aggressione arbitraria, di un pretesto inammissibile. E anzi il suo governo presenta presunte prove dell'uso da parte dei ribelli delle stesse armi. Allora, che cosa vuol fare Putin se Obama attacca? Prudente, ha informato che è sospesa la consegna dei missili S300 promessi a Assad. Se l'attacco avesse luogo, ha aggiunto, «abbiamo le nostre idee su quel che faremo e come lo faremo». Ma lo sa davvero? Putin ha mosso una grossa nave da guerra verso il Mediterraneo orientale, dove si trova anche la flotta americana. Un modo di riaffermare l'autorità in quell'area, che è la porta d'ingresso al Medio Oriente, a cui la Russia accede anche attraverso la base navale di Tartus in Siria.

Ma fino a che punto Mosca può davvero legarsi al fronte siro-iraniano, che prepara la bomba atomica pericolosa anche per lui? E quanto Obama cercherà di assicurarsi almeno la sua neutralità? La prossima puntata al G20, dove i due leader siederanno prudentemente distanti grazie all'escamotage di usare l'alfabeto latino invece di quello cirillico.

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