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È evaso dai domiciliari per portare i ragazzi a scuola: lei non doveva uscire

Sì, l’Alzheimer si potrà curare. Si è fatta finalmente un po’ di luce nel buio di questa tragica malattia che colpisce ventisette milioni di persone nel mondo e ottocentomila in Italia. Il suo inarrestabile dilagare, le poche e inefficaci terapie, l’impressionante peso delle risorse per gestirla (sociali, emotive, organizzative ed economiche), di cui troppo spesso se ne fanno carico i familiari, rendono l’Alzheimer una delle patologie a più grave impatto sociale nel mondo. Per questo bisogna rendere onore al professor Daniel Alkon che alla più dura fra le battaglie per un ricercatore ha dedicato la sua vita studiando gli imperscrutabili meccanismi della memoria, le malattie neurodegenerative, l’invecchiamento cerebrale, per arrivare a sconfiggere l’Alzheimer.
Ci incontriamo vicino Washington, nel suo studio al Blanchette Rockefeller neurosciences institute di cui è direttore scientifico, per parlare di questa sua scoperta annunciata con un certo clamore e che darà speranza a tanti malati e alle loro famiglie.
Allora è vero professor Alkon, lei ha messo al tappeto l’Alzhmeimer?
«Penso che abbiamo imboccato la strada giusta e se anche siamo alle prime tappe, la meta non è lontana. Con la mia equipe stiamo lavorando alla messa a punto di un metodo per la diagnosi precoce e di una cura “fatta su misura” proprio per questa patologia. La diagnosi avviene attraverso un test della pelle prelevata dal polso. Misurando il livello di un enzima (PKC Epsilon), che noi sosteniamo avere un ruolo chiave nell’Alzheimer, siamo in grado di identificare se il tipo di demenza è o non è legato a questa patologia. E soprattutto con questo metodo i medici saranno in grado di fare un’accurata diagnosi entro i primi cinque anni, cosa che oggi è ancora difficile. Siamo già in una fase avanzata degli studi clinici e pensiamo che in un paio di anni questo metodo potrà essere disponibile sul mercato ed essere utilizzato ovunque».
E adesso mi dica della cura.
«Stiamo lavorando sulla Briostatina, un farmaco che è stato usato per le patologie del tumore ma senza successo. Lo abbiamo testato in laboratorio per l’Alzheimer e abbiamo scoperto che dà risultati sorprendenti. Allora abbiamo sviluppato dei nuovi composti sul modello della Briostatina ancora più facili da sintetizzare, adattandoli all’Alzheimer. Insomma abbiamo realizzato un “vestito su misura”».
Ci spieghi meglio.
«Il farmaco e questi nuovi composti hanno dato ottimi risultati, per esempio la crescita di nuove sinapsi, il salvataggio di neuroni morenti e la prevenzione delle proteine tossiche che sono presenti nei cervelli affetti da Alzheimer. Ora che i test sugli animali sono andati bene, possiamo passare alla fase successiva sull’uomo. Devo confessare che sono ottimista, bisogna solo avere pazienza. La soluzione sembra essere molto vicina».
Mi chiedevo, professore, se non bastano i segnali ormai riconoscibilissimi della perdita di memoria e della coscienza di sé, quella specie di demenza, a dire che è in atto l’Alzheimer?
«No. Ci deve essere una diagnosi precisa e approfondita, perché quei segnali sono spesso gli stessi della demenza senile, che è un’altra cosa, del Parkinson, dei traumi cranici, di certe forme di depressione... È quindi necessaria una diagnosi di laboratorio, come può essere il nostro test».
È vero che sono le donne a soffrire di più di Alzheimer?
«Diciamo che le donne, avendo un tragitto di vita più lungo di quello degli uomini, hanno più possibilità di ammalarsi».
C’è un problema di ereditarietà?
«Solo nel 5% dei casi la questione è genetica».
L’Alzheimer è la malattia dei vecchi o può colpire anche i giovani?
«È rarissimo che lo faccia. In genere non se ne sente parlare prima dei 65 anni. Dopo c’è una escalation che va di pari passo con l’età al punto che dopo gli 85 anni, la percentuale è quasi del 50%, ovvero una persona su due ha l’Alzheimer».
Lei che ha dedicato tanti anni allo studio dei meccanismi della memoria, che cosa consiglia per non perderla, per tenerla in esercizio?
«L’ha già detto lei, tenerla in esercizio. Leggere, chiacchierare con la gente, interessarsi di tutto, camminare, giocare a scacchi, a bridge, fare le parole incrociate, insomma non lasciarsi andare, non cadere nel tranello della poltrona davanti ala televisione».
In quale parte del cervello ha sede la memoria?
«Non ha una sola sede, ma più “dimore”, per questo in caso di ictus o di trauma cranico, la riabilitazione può dare buoni risultati. Proprio perché la memoria vive in più parti del cervello, quando un accesso è negato perché dei neuroni o delle sinapsi sono stati danneggiati, nuove sinapsi possono crescere e creare altri “contatti” con quella parte del cervello che era stata disconnessa».
Mi dice professore cosa la spinge a perseverare nelle sue ricerche, l’odio per l’Alzheimer, o il pensiero dei malati e delle loro famiglie?
«Questa contro l’Alzheimer non è solo una battaglia contro una malattia. La memoria è ciò che ci rende umani. È come noi definiamo noi stessi. Perdere la memoria priva un essere umano del senso di sé.

E noi scienziati abbiamo il dovere di vincere questa battaglia il prima possibile».

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