Cultura e Spettacoli

"Con le mie sfere eterne combatto la paura di morire"

L'artista, alla soglia dei 90 anni, continua a fare progetti: "La mia vita di uomo e quella di scultore sono la stessa cosa. Le piazze hanno bisogno di opere d'arte: danno emozioni e fanno bene alla gente"

"Con le mie sfere eterne combatto la paura di morire"

Essere Arnaldo Pomodoro. Ovvero, a quasi novant'anni, incarnare l'icona dell'artista monumentale, quello delle grandi commissioni pubbliche, raro esempio di «profeta in patria» conteso anche all'estero per le sue eterne sfere di bronzo. Instancabile, continua a progettare e a ospitare mostre nella sua Fondazione sulle rive dei Navigli milanesi, come l'ultima dal titolo emblematico: «Tutto è felice nella vita dell'arte».

È davvero così, maestro?

«Così è stato nella mia vita dove ho tanto ricercato e tanto ho lavorato, sempre con impegno e passione: poter esprimere la mia immaginazione, la mia creatività mi dà ancora un senso di pienezza e soddisfazione».

Le sue mastodontiche sculture campeggiano nelle città di tutto il mondo. Le piazze hanno ancora bisogno di monumenti?

«Monumento è una parola che non mi piace, perché implica uno scopo celebrativo in senso troppo tradizionale. Sono però convinto che le piazze avranno sempre bisogno di opere d'arte. Ogni luogo cambia quando c'è qualcosa da osservare, con cui dialogare. Credo che anche in una piccola piazza insignificante, una scultura può essere un'occasione di riflessione, di emozioni, o anche solo per ricordare il tempo che passa. Penso che le persone la frequenterebbero più volentieri».

Le sue opere sono spesso criptiche e un po' inquietanti. Qual è stato il segreto del suo successo?

«Sono forse riuscito a definire il motivo stilistico che fa da perno al mio lavoro, che è poi il linguaggio espressivo che mi identifica e che la gente riconosce, ma non ho mai perduto la passione per la ricerca artistica. E questo credo si legga nelle mie opere: una tensione, un bisogno di immaginare, di sperimentare».

Sulle sculture compaiono spesso scritture che sembrano geroglifici. Perché questa ossessione per l'arcaico?

«Mi hanno sempre affascinato tutti i segni dell'uomo, soprattutto quelli primitivi, dai graffiti dei primordi alle tavolette mesopotamiche, quelli fatti per tramandare memorie e racconti. Credo che le mie opere esprimano una sensazione ambivalente di memoria e rispetto per il passato e di ammirazione per la tecnologia e per il progresso, inteso come aspirazione a nuove scoperte e conoscenze».

Poi c'è l'ossessione per la sfera, un bisogno di perfezione?

«Al contrario, il desiderio di rompere una forma perfetta per scoprirne le fermentazioni interne, mostruose eppure, misteriose e viventi; così provoco col lucido levigato della superficie un contrasto, una tensione discordante, una completezza fatta di incompletezze. Nello stesso atto, mi libero di una forma assoluta. La distruggo».

Quando progetta un'opera da dove comincia?

«Il lavoro di ideazione e realizzazione di un'opera è per me un processo complesso, cui concorrono al contempo sia elementi emozionali che razionali, e si svolge ogni volta in modo differente».

Opere certamente impegnative. Quanti assistenti ha?

«Diversi sono i collaboratori che da molti anni mi affiancano stabilmente: oltre ai miei diretti assistenti e alle persone che si occupano della gestione e organizzazione dello studio e dell'archivio, mi avvalgo della collaborazione di tecnici e artigiani esterni e delle fonderie».

Dica la verità, per diventare artisti pubblici in Italia bisogna anche saper essere bravi politici?

«Per quanto mi riguarda cerco sempre di comportarmi con rigore e trasparenza: non so se queste sono le qualità di un buon politico».

C'è un'impresa che avrebbe voluto realizzare senza esserci riuscito?

«Non posso non ricordare la mancata realizzazione del mio progetto per il nuovo cimitero di Urbino che aveva vinto il concorso indetto dal Comune nel 1973. L'idea era quella di scavare una strada dentro la collina, nel verde, con alte pareti in cui collocare le tombe, per creare un'opera che integrasse architettura e natura. Il nuovo cimitero avrebbe dovuto essere subito costruito, ma fu contrastato e bloccato per pregiudizi e timori, nonostante avesse suscitato e continui a suscitare l'apprezzamento di numerosi e importanti critici».

A proposito, è vero che il Comune di Belluno si è venduto un suo monumento per fare cassa?

«Si sa che le istituzioni e gli enti pubblici sono a corto di risorse, ma è veramente triste assistere a questa sorta di “dismissioni”».

Piccoli incidenti di percorso per una carriera impeccabile. Pensare che ha iniziato facendo il geometra...

«Già, ma il lavoro come geometra al Genio civile di Pesaro, dove si progettava la ricostruzione degli edifici pubblici distrutti dai bombardamenti, mi ha fatto conoscere con partecipazione diretta la realtà italiana di quegli anni: questo è stato importante per la mia maturazione e per lo sviluppo del mio percorso di artista».

Prima gli studi di economia, poi il Genio civile e infine gli studi letterari. Come è approdato all'arte?

«Da bambino, quando andavo a giocare sulle rive del fiume Conca, con la sabbia mescolata all'argilla disegnavo e costruivo forme fantastiche. Questo “scavare” dentro la terra, immaginare paesaggi, è stata forse l'origine della mia opera».

Se ricominciasse una nuova vita farebbe ancora lo scultore?

«Di certo non potrei fare niente di diverso. La mia vita di uomo e la mia vita di scultore sono la stessa cosa».

E la sua è stata una vita lunga e fortunata. Ha paura della morte?

«Il pensiero della morte mi provoca un senso di angoscia profonda, ora diventato ancora più acuto, che io cerco di esorcizzare immergendomi nel lavoro e continuando a fare nuovi progetti».

L'aiuta anche la fede?

«Non sono credente, anche se ho ricevuto un'educazione religiosa che ha lasciato in me un segno profondo. Io penso che l'artista abbia una sua propria religiosità e un forte senso etico e che l'idea di spiritualità nell'arte sia essenziale. Nei periodi più difficili della mia vita ho realizzato le sculture più forti e significative».

La sua famiglia era contenta che facesse l'artista?

«Assolutamente no, consideravano gli artisti come dei buoni a nulla un po' stravaganti, destinati a condurre una vita povera e disordinata».

Lei è romagnolo ed è approdato a Milano a 30 anni senza più abbandonarla, perché?

«Sono arrivato a Milano dalle Marche con mio fratello Gio' nel 1954 nel pieno della ripresa e della ricostruzione, dopo le devastazioni della guerra. La città era stupenda, internazionale, cosmopolita. Milano la sento come casa mia, anche se non sono nato qui e ho viaggiato in tutto il mondo».

Com'era la Milano di allora? Le piace ancora?

«Milano era davvero all'avanguardia, nel teatro, nell'arte, nella musica. Un clima straordinario fatto di incontri, scambi, collaborazioni nazionali e internazionali: una vita culturale stimolante e vitalissima. Purtroppo la Milano degli anni '50 e '60 è sparita, la città è molto cambiata: stiamo attraversando un periodo di trasformazione generale del mondo che coinvolge l'intero sistema e riguarda la mutazione antropologica del luogo e la sua stessa identità».

Oggi tutti parlano di un nuovo rinascimento di Milano, ci crede?

«Lo spero proprio e i primi segnali positivi già si vedono».

Pisapia le è piaciuto?

«È stato un grande sindaco e mi piacerebbe che si ricandidasse».

A Expo hanno messo una scultura di Vanessa Beecroft e non una sua. Ingratitudine?

«Rispondo: largo ai giovani...».

Con la sua Fondazione è tornato sui Navigli. La vecchia Milano le piace di più dei nuovi grattacieli?

I nuovi grattacieli sono straordinari. Dopo la Torre Velasca dei BBPR e il Pirellone progettato da Gio Ponti, finalmente Milano ha ritrovato quella forza e quello spirito innovativo».

Quello di via Solari era uno spazio spettacolare. Che è successo?

«Lo era, davvero: ci ha permesso di fare delle grandi mostre temporanee e di promuovere diverse attività culturali. Speravo di poter avere appoggi dal punto di vista economico, ma purtroppo questo è avvenuto solo agli inizi e nel frattempo è cominciata la crisi economica. Forse ho volato troppo in alto. Comunque gli scopi della Fondazione sono sempre gli stessi e le attività scientifiche ed espositive proseguono nel nuovo spazio di via Vigevano 9».

A Milano vivono anche due cugine illustri, la teatrante Teresa (scomparsa) e l'ex presidente del tribunale Livia. Una famiglia speciale....

«Sì, una famiglia speciale, un'antica famiglia di origine pugliese: non per niente il nome non vuol dire “pomodoro” nel senso di tomato, bensì “pomo d'oro”, cioè scettro d'oro».

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