Cultura e Spettacoli

La famiglia felice s’inventa con gli amici

Affinità elettive e sentimenti al centro della commedia corale "Happy Family", al cinema dal 26 marzo. Nel cast Fabio De Luigi, Diego Abatantuono e Fabrizio Bentivoglio. Il regista: racconto i momenti in cui nasce l’affetto

La famiglia felice s’inventa con gli amici

Roma - C’è aria di passione per le persone nel cinema italiano, che svela un tratto distintivo di noi, adesso, mentre fuori è bolgia e stiamo cercando un punto di equilibrio. Lo conferma Happy Family dell’oscarizzato Gabriele Salvatores (Mediterraneo, 1992), che allinea la sua commedia corale (dal 26 nelle sale) sul fronte del volersi bene tra esseri umani, a prescindere dai legami familiari in senso stretto. E sembrano Mine vaganti, come titola il fortunato film del regista turco-romano, basato sulle dinamiche affettive extrafamiliari, tutti i personaggi alla Pirandello, ritratti nel ritorno di Salvatores sul grande schermo.

Dopo Come Dio comanda, infatti, il regista classe 1950 (d’origine napoletana, ma milanese di testa), ha coltivato il suo spirito innovatore, lavorando a una serie tv per Sky, dove ha affinato un linguaggio televisivo passepartout.

E siccome è stream tra i mezzi audiovisivi, ecco Happy Family, a giocare su un sistema di esistenze parallele, tra alcune forme pure ed estreme del vero e del falso. Per realizzare questo strano giocattolo, che sta bene sugli scaffali dello spot e nella bacheca del cinefilo (già si parla di un remake negli Usa) ci sono voluti cinque milioni di euro (producono Colorado Film e Rai Cinema) e un cast di livello. Fabio De Luigi, ogni giorno nelle pubblicità legate al bucato (qui indossa una camicia bianca e, dopo averla messa, si materializza uno scaffale di detersivi al supermarket... vabbè), interpreta Ezio, sceneggiatore egocentrico e solo. Uno che, per godere in fretta e senza storie, cerca una massaggiatrice cinese dalle parti di via Sarpi, a Milano, qui svelata nella sua bellezza di metropoli in movimento. «Questo film è dedicato a chi ha paura», dice il protagonista, mentre butta giù idee per una storia da cinema. A chi ha paura delle donne, di votare, della gente, insomma a chi ha paura di vivere. Come Ezio, in bici lungo i navigli, solo come un cane nella città estiva. Ma mentre scrive al computer, sul display prendono corpo i personaggi della sua sceneggiatura, che guardano in macchina e chiedono più spazio. E sono vivi, veri, hanno una vita autonoma e la raccontano in faccia allo spettatore (vecchio trucco drammaturgico e dalla commedia di Alessandro Genovesi, qui sceneggiatore con Salvatores e autore dell’omonimo romanzo Mondadori, viene il film).

Ha così inizio un pirandelliano gioco delle parti, dove la famiglia medio-borghese formata dalla coppia Carla Signoris e Diego Abatantuono (lei beve, lui si fa le canne), genitori d’una sedicenne, familiarizza con la famiglia alto-borghese formata dalla coppia Fabrizio Bentivoglio e Margherita Buy (lui padre d’una ragazza depressa, lei madre d’un adolescente gay). C’è di mezzo un matrimonio tra ragazzini, che non s’ha da fare (in nome del politicamente corretto, Filippo ama Carlo, ma ancora non lo sa e vuol sposare Marta), mentre un incidente stradale mette in rotta di collisione Ezio con gli squinternati membri delle due famiglie (cioè, i personaggi del suo film).

Il finale è felice: ci si ama, ci si sposa, si muore, ma la vita continua. «Luc Besson ha smesso di fare il regista, perché non sapeva più scindere la realtà dalla finzione. Io ci ho fatto su una finzione nella finzione, dividendola in tre capitoli. Nel primo ci sono i personaggi: noi, quando arriviamo al mondo e chissà se qualcuno ci ha scritto un copione. Il secondo capitolo è quando scattano le confidenze e c’è fiducia verso gli altri e il terzo è “the family”», spiega Salvatores, che riprende Milano a naso in su «per escludere la strada, cioè la realtà».

Nel film strizzano l’occhio al vintage le canzoni cantate da Simon & Garfunkel e un tono generale da commedia sofisticata anni Sessanta. «La mia formazione artistica è avvenuta tra i Sessanta e i Settanta e queste canzoni hanno accompagnato i miei amori. Il cinema è un mare enorme, dove c’è di tutto, però non si possono dire bugie: è il mio credo al cinema, ma anche in politica. Viviamo in un’epoca in cui si dicono troppe bugie. È dai tempi di Nirvana che mi chiedo che cos’è vero e che cos’è falso».

Sarà per spartire il grano dal loglio, allora, che il regista ha mixato suoi fedelissimi (Abatantuono e Bentivoglio) con facce sconosciute e Sandra Milo, nel solito ruolo della madre svampita (vedi L’isola dei famosi tv, con «Sandrocchia» chioccia dei naufraghi).

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