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Il federalismo fiscale? L'ha inventato Cavour

Stato minimo, macroregioni, autonomia amministrativa: ecco il progetto di legge voluto dal Conte prima di morire. La proposta fu affossata dalla vecchia burocrazia piemontese e dalla sinistra mazziniana

Il federalismo fiscale? L'ha inventato Cavour

Mentre l’attività del Comitato dei garanti per le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia si consuma sterilmente tra mugugni, battibecchi, minacce di dimissioni, pare proprio che il compito di ricordare degnamente questo evento resti affidato all'iniziativa di qualche valido studioso e di qualche editore coraggioso. Così accade con la biografia di Cavour di Adriano Viarengo, in uscita in questi giorni da Salerno (pagg. 568, euro 28), nella quale l’autore ha saputo ricostruire la carriera pubblica del maggiore protagonista del Risorgimento, mai dimenticando di mettere in evidenza le tensioni familiari, il temperamento autoritario, la tenace aspirazione al cambiamento, ma anche le fragilità umane e le incertezze di questo personaggio. Senza cedere alla tentazione di ingessare Cavour nella «galleria dei busti» della nostra storia patria, Viarengo ha creato un ritratto esemplare che ripercorre la storia umana del latifondista di Grinzane, sospesa tra «vizi privati e pubbliche virtù», dando posto alle accalorate discussioni con i contadini delle sue terre, alla sua attività di intellettuale europeo, all’agitata vita sentimentale, ai flirt con le dame dell’aristocrazia piemontese, all’impetuosa passione per una nobildonna genovese, all’«affettuosa amicizia» che lo legò a una intellettuale francese e a una attrice italiana.

Eguale attenzione dedica Viarengo all’analisi del progetto politico dello statista sabaudo che seppe dare sostanza al nostro processo di formazione nazionale, puntando sulle forze di quell’«Italia moderata», che, nel futuro prossimo e lontano, avrebbe saputo superare le difficili sfide interne e internazionali con gli uomini della Destra storica, uscire dalla difficilissima crisi della fine del secolo XIX, grazie a Giolitti, rialzarsi dalla disastrosa sconfitta della seconda guerra mondiale in virtù dell’azione di Alcide De Gasperi. Era a questa «Italia di centro» che Cavour guardava con lungimiranza, quando già nel 1846 affermava che «nel nostro paese una rivoluzione democratica non avrebbe nessuna probabilità di successo, dato che il partito favorevole alle novità politiche non riscuote alcuna simpatia nelle masse, mentre la sua forza risiede nelle classi medie così interessate al mantenimento dell’ordine sociale da rifiutare con fermezza le dottrine sovversive di Mazzini e di altri agitatori».
Da questo punto di vista è certamente possibile dire, rovesciando il senso di una famosa frase di Massimo d’Azeglio, che se Cavour «fece gli Italiani», il più grave problema da affrontare restava per lui quello di «fare l’Italia» e cioè quello di creare un modello di Stato, capace di unire e non semplicemente di unificare popolazioni divise da realtà storiche, politiche, culturali, produttive. L’Italia sarebbe stata una «corbelleria», sosteneva Cavour, senza realizzare questa unione dal basso e se a essa si fosse voluto dare corpo sovrapponendo al tessuto policentrico della Penisola le normative statali piemontesi o procedendo a una centralizzazione autoritaria di tipo bonapartista.
Questa profonda intuizione, che il volume di Viarengo tende però a sottovalutare, spiega perché Cavour, alla vigilia della proclamazione del Regno d’Italia del 17 marzo 1861, conferì mandato al ministro dell’Interno Marco Minghetti di elaborare un progetto di riordino amministrativo ispirato a un ampio decentramento. Su questa linea, Minghetti elaborò un’articolata proposta, tendente a conciliare le esigenze del nuovo Stato con le esperienze e le tradizioni di governo locali. Il ministro ipotizzava sei grandi unità territoriali (delle vere e proprie macro-Regioni) da costituire come corpi intermedi tra centro e periferia. Queste aggregazioni avrebbero riunito, sulla base di un consorzio di carattere volontario e permanente, le province affini per vicinanza territoriale, per storia, per interessi, per modelli culturali e tradizioni. Grazie alla dislocazione amministrativa, le Regioni avrebbero introdotto con gradualità e senza forzature gli ordinamenti dello Stato unitario con l’obiettivo di armonizzarli con le antiche prerogative dei territori e delle comunità. Minghetti proponeva dunque un disegno realmente innovativo, del tutto inedito nel contesto europeo, che si basava sull’idea di uno «Stato minimo» in grado di enfatizzare il principio del self-government, nel settore cruciale della spesa pubblica, ma anche di preservare il diritto naturale dei cittadini di associarsi in entità fortemente coese, per contrastare quella che Cavour aveva definito la «tirannia centralizzatrice».

Il progetto Minghetti, presentato il 13 marzo del 1861, si scontrò però con l’opposizione frontale di una classe politica incapace di prendere in seria considerazione questa soluzione. Dopo un acceso dibattito parlamentare, l’analisi del disegno di legge venne rimandato a una Commissione dove contro di esso si formò un largo schieramento di opposizione composto dagli esponenti della vecchia burocrazia piemontese ma anche della sinistra fuoriuscita dai ranghi della fazione mazziniana che ne decretò la bocciatura in ragione di una malintesa difesa del carattere unitario del nuovo Regno. Una vecchia leggenda risorgimentale narra che Cavour, poco prima della sua scomparsa, avvenuta il 6 giugno 1861, avrebbe affermato di poter morire sereno, avendo ormai fatta l’Italia. Personalmente, penso che gli ultimi momenti della sua vita siano stati connotati da minore soddisfazione.

Con la bocciatura della riforma Minghetti, il nostro Paese avrebbe rinunciato infatti, fino ai nostri giorni, a un’architettura istituzionale connotata da un federalismo amministrativo che poteva meglio garantire, insieme all’unità, la crescita di tutte le sue componenti territoriali senza eternare antichi contrasti e creare nuovi squilibri.

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