Cultura e Spettacoli

La ferocia del D-day raccontata dallo storico Antony Beevor

Un nuovo saggio racconta la storia
del «Giorno più lungo» non risparmiando
le vicende più tremende e insensate.
Quelle che la retorica dei vincitori (e dei vinti)
ha preferito dimenticare

Matteo Sacchi
Se il D-day non fu il giorno più lungo di sicuro è stato il giorno più scritto. Tra tutte le giornate della storia del novecento, infatti, il 6 giugno 1944 è stata, indubbiamente, una delle più studiate, e per ovvie ragioni. Nell'arco di ventiquattro ore, nella riuscita o meno di una testa di ponte, gli alleati si sono giocati buona parte delle loro possibilità di occupare militarmente l'Europa in un tempo ragionevole.
Una scommessa vincente anche se, con il senno del poi, molto risicata. E certo, al di là degli evidenti svarioni di qualche studioso, se le truppe da sbarco fossero state fermate sulla spiaggia, il destino del Reich sarebbe stato egualmente segnato: troppo grande il divario di forze, troppo massicci i bombardamenti angloamericani, troppo numerosa l'Armata rossa. Certo, i tempi sarebbero stati diversi e la Germania avrebbe forse potuto negoziare la sua posizione.
Però anche se avete già delibato la gran massa di saggi, romanzi e film sull'argomento, editi sino ad ora, il nuovo studio di Antony Beevor sull'argomento sarebbe il caso di posteggiarlo in libreria. Si intitola D-day la battaglia che salvò l'Europa (Rizzoli, pagg. 628, euro 24,50) ed è davvero, con il suo imponente numero di pagine, una delle monografie più complete e meglio scritte. Il pregio del saggio è quello di fornire sempre il dettaglio senza mai perdersi nel medesimo, di elencare il dato tecnico senza mai elencarlo a vanvera. E se il libro non cambia certo l'interpretazione generale degli eventi da molto bene l'idea di quanto sia stata cruenta, e frammentata, la battaglia. Ne ridà il senso (o il non senso) doloroso che la retorica dei vincitori ha a lungo cancellato. Beevor evidenzia molto bene tutti gli errori tecnici degli alleati, a partire dalle manie di grandezza di Montgomery, che causarono «il fiasco di Caen», per arrivare agli sbagli dei comandanti di plotone che incrinarono le strategie dei generali. Descrive come nessun'altro prima la follia di alcuni dei contrattacchi tedeschi, come il tentativo dei tedeschi di riprendere Norrey, dove i loro carrarmati vennero polverizzati dalle artiglierie navali. Ma la parte di storia che davvero riesce ad illuminare di nuova luce riguarda le maniere «spicce» (leggasi eliminazione fisica) verso i prigionieri che vennero utilizzate da entrambe le parti.
È la parte che la retorica di guerra ha cercato di far sparire e che una volta riscoperta rende l'idea di quanto fu tremendo il D-day. Un'esempio? l'8 giugno un distaccamento del reggimento «Inns of Court» catturò delle truppe della divisione «Panzer Lehr». Non sapendo come trasportarle decisero di legarle all'esterno dei mezzi. I tedeschi protestarono, dissero (a ragione) che era contro la convenzione di Ginevra e che era un modo per usarli come scudi umani. I britannici non stettero a discutere in punta di diritto internazionale: mitragliarono quelli che si rifiutavano. Gli altri legati ai mezzi vennero colpiti da un controcarro tedesco assieme agli inglesi. Il giorno dopo la «Hitlerjugend» passò alle fucilazioni di rappresaglia. Poi arrivò il bocage e la lotta tra le siepi con la sua crudele macelleria...

Insomma tutto quello che in un film non vi faranno mai vedere.

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