Controcultura

Ferroni, l'artista-filosofo che dipingeva teoremi

Pittore figurativo ed enigmatico, coglieva l'essenza del reale mettendo su tela idee e concetti

Ferroni, l'artista-filosofo che dipingeva teoremi

«Nel Realismo esistenziale - dagli anni '50 fino ai '60 - i riferimenti erano gli espressionisti tedeschi, la Nuova oggettività, le periferie di Sironi. Ciò che ci interessava da giovani era la denuncia, anche rabbiosa, di una società ingiusta, madre di situazioni sperequate. Sentivamo la voglia di fare qualcosa, di agire in maniera incisiva per un cambiamento positivo. Col tempo ci siamo arresi all'evidenza che la pittura e la cultura in genere - che pure registrano i sintomi di certe situazioni - non cambiano proprio niente. Questa situazione ha creato un linguaggio aggressivo, pungente, legato alla tradizione nata con gli espressionisti e continuata con Picasso. Picasso che - avendo vissuto noi in una dimensione di quasi totale emarginazione rispetto a quanto accadeva in Europa - conoscemmo peraltro solo in un secondo momento, negli anni del Dopoguerra. Poi, nella maturità, la scelta dei punti di riferimento è andata differenziandosi, spaziando dallo studio della luce di Vermeer alla costruttività compositiva della metafisica italiana, da Caravaggio fino a Cézanne e Morandi. Si tratta di retaggi importanti per tutti».

Con queste parole Gianfranco Ferroni (Livorno, 1927 - Bergamo, 2001), sul finire della sua vita, sintetizza la ricerca di un cinquantennio, fino alla seconda metà del secolo scorso. Da una pittura di impegno sociale egli passa a una pittura intimista e segreta. Non deve denunciare nulla, vuole soltanto confidare il suo cuore segreto, delimitare i confini della sua coscienza. Nella maturità, a partire dai primi anni '80, Ferroni inizia le sue «stanze», spazi reali e spazi di meditazione, ansiosa esperienza terminale della pittura, prima di oltrepassare il confine del nuovo millennio. La sua è un'esperienza mistica, e insieme l'estrema verifica che il mondo esiste, che ci sono gli oggetti, che la realtà non è un'illusione. La pittura di Ferroni sembra rispondere al quesito posto da Eugenio Montale in Xenia (da «Satura»): «Dicono che la mia / sia una poesia / d'inappartenenza./ Ma s'era tua era di qualcuno: / di te che non sei più forma, / ma essenza. / Dicono che la poesia al suo culmine / magnifica il Tutto in fuga, / negano che la testuggine / sia più veloce del fulmine. / Tu sola sapevi che il moto / non è diverso dalla stasi, / che il vuoto è il pieno e / il sereno / è la più diffusa delle nubi. / Così meglio intendo il tuo/ lungo viaggio / imprigionata tra le bende / e i gessi. / Eppure non mi dà riposo / sapere che in uno o in due / noi siamo una sola cosa».

Una pittura di inappartenenza, dunque, che cerca di consistere nell'apparenza misteriosa delle cose. Ferroni dipinge concetti, pensieri, evitando rigorosamente di essere affine agli artisti concettuali, che giocano con la realtà delle idee. Assai raramente un artista figurativo ha saputo essere così problematico, così filosofico, così limpido e insieme enigmatico. E la nostra curiosità delle sue immagini non si consuma, ma sembra potenziarsi nella ripetitività, nell'infinita varietà, decisamente morandiana, del tema di natura morta. Gianfranco Ferroni scrive un diario che è come la vita, alternanza di varietà e ripetizioni, folgorazioni e atti inutili. La sua visione non è fotografica né iper-realistica; è invece espressione di una grande limpidezza intellettuale, di una meditazione lenta sulla possibilità di costruire un'atmosfera e un'emozione attraverso il disegno. L'equivoco del realismo, in Ferroni, nasconde un'intima propensione a cogliere l'essenza del reale. Ogni quadro è un progressivo avvicinamento e un noumeno imperscrutabile. Ferroni non dipinge oggetti ma teoremi. Ogni suo quadro è un teorema dimostrato. Se osserviamo un dipinto come Sedia coperta da un lenzuolo (1986), intuiamo l'esistenza di un protagonista misterioso, dissimulato sotto una diversa forma, con un'essenzialità quasi religiosa, che ha come unico, profondo affine il mondo di Gnoli, pur senza quella concretezza, quella solidità, evidenziando più che l'oggetto lo spazio che lo contiene, con una minutissima esecuzione in punta di matita. Ed è proprio l'ostinato uso della matita a rivelare uno dei caratteri fondamentali della poetica di Ferroni: incisore per intima vocazione, egli, che fa della finitezza il principale obiettivo, appare più compiuto nel disegno che nella pittura. Qualcosa di tagliente, di spigoloso, d'inciso, trasforma ogni foglio in una lastra, rinunciando ai facili effetti degli spessori, della materia pittorica.

Ferroni ha paura: vuole fissare l'immagine che è sempre sul punto di sfuggirgli. Così raccoglie tutto su uno sgabello o un tavolino e l'affonda in uno spazio amplissimo, rappresentando con ostinazione il vuoto. Troppo facile dipingere ciò che c'è, ciò che si vede, occorre cogliere ciò che sta dietro le cose, come l'ombra che si stampa sul muro, segnale di chi vede e non si vede; ed essa esiste e non esiste. Rendere solide le ombre, dare loro corpo, farle entrare come testimoni è ciò che preme a Ferroni. E, dunque, ridurre a un velo gli oggetti, scioglierli dalla corporeità, ridurli a fantasmi nel vuoto. Ed è un vuoto densissimo, che irradia luce. Questa è la componente più misteriosa dell'opera di Ferroni: il richiamo a Vermeer come una lezione irrinunciabile, un metodo calato nella dimensione esistenziale, nel pesante disadorno, inglorioso, scarnificato e ridotto a pochi insignificanti oggetti, metafore di una solitudine invincibile. Tutto ciò che è semplice e quotidiano diviene materiale per evocazioni, si volge dalla dimensione fisica a quella metafisica; e il realismo diventa la strada privilegiata verso la visione.

Spiegazioni non necessarie davanti alla evidenza della sua opera.

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