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Fini alza il tiro: "Serve un’altra legge elettorale"

Il presidente della Camera rilancia dopo l’ipotesi di riforma semi-presidenzialista: "Va benissimo, ma non ci si limiti all’elezione diretta del capo dello Stato. Dalla Francia importiamo anche il sistema di voto per il Parlamento"

Fini alza il tiro: "Serve un’altra legge elettorale"

Roma - Si guardi pure a Parigi. Anzi, ben venga. Ma sia chiaro che quel pacchetto di riforma, da ricalcare sul sistema semi-presidenziale, non può che essere completo. Insomma, si tratta di un all inclusive, senza modifiche parziali o amputazioni di vario genere. Gianfranco Fini prova a riprendersi la scena e torna a bomba, rilanciando un suo vecchio cavallo di battaglia. Lo stesso che il Carroccio, grazie all’attivismo in primis di Roberto Calderoli, ha già infilato nel calderone politico, oltre che in quella bozza che lo stesso ministro per la Semplificazione, in mattinata, gli mostra durante un breve incontro a Montecitorio.

Qualche ora dopo, però, prima di commentare il responso delle Regionali («la maggioranza ha vinto le elezioni e quando si vince va tutto bene») e l’avanzata della Lega («questo è oggetto del nostro dibattito politico nazionale»), Fini è lesto a fissare un nuovo paletto. Così, se si guarda seriamente al modello transalpino, bisogna contemplare anche da noi una «estesa innovazione costituzionale», che oltre confine «ha riguardato in modo armonico modalità di elezione e poteri del presidente della Repubblica, ma anche contestualmente riordino del Parlamento e sue modalità di elezione». Per intenderci, «non si può ragionare del modello francese prescindendo dalla legge elettorale».

La terza carica dello Stato va oltre, intervenendo al convegno organizzato dalla sua fondazione, Farefuturo, affrontando la questione in maniera ampia, a volte fin troppo tecnica. Ma se la base di partenza è nota («anche in Italia si avverte l’esigenza di un miglior equilibrio istituzionale tra potere esecutivo e legislativo»), è il nodo sulla legge elettorale ad aprire un nuovo fronte polemico. Perché il «maggioritario con sistema uninominale a doppio turno», auspicato da Fini per «rafforzare il sistema bipolare», non è un passaggio da poco. Non a caso in pochi, di certo non il premier, che rinnova di continuo la sua contrarietà (per il Cavaliere sarebbe complicato e costoso), mettono in cantiere, nella maggioranza, l’ipotesi di rivedere l’attuale sistema elettorale. Per Ignazio La Russa, che entra però nella questione prima dell’uscita pubblica di Fini, «nessun modello viene importato pari pari», perché «ispirazione non vuol dire omologazione, fare copia e incolla». Gianfranco Rotondi, invece, dice la sua dopo il distinguo: «Sulle riforme è bene essere chiari: il Pdl non è disposto a cambiare la legge elettorale, e lo dice il ministro per l’Attuazione del programma, non Rotondi». E «su questo punto la base parlamentare è unanime».

Ma non finisce qui. L’inquilino di Montecitorio, pur sposando in pieno l’esempio francese, non nasconde i dubbi sulla sua fattibilità. «A me non va bene, va benissimo questo modello», premette, prima di chiedersi: «Ma siamo sicuri che si possa introdurre in Italia in tutta la sua complessità? Ho l’impressione che si parli solo di elezione diretta del capo dello Stato...». In realtà, aggiunge, «in tre anni ce la faremmo a fare la riforma», a patto che ci sia la «consapevolezza» sull’ampiezza del progetto, evitando che la discussione sia «viziata da stanchezza culturale e pregiudizi di carattere politico». In ogni caso, rintuzza l’ex leader di An, «bisogna stare attenti, perché se si omette una sua parte, non è detto che venga garantita l’armonia del sistema francese».

In sintesi, «la V Repubblica può essere un modello per l’Italia, ma solo nella piena consapevolezza che una sua adozione non organica e di sistema, ma parziale o peggio ancora amputata di alcuni suoi fondamentali meccanismi di equilibrio e di garanzia, rischierebbe di non rispondere positivamente alle reali necessità del nostro Paese».


Di certo, «le nuove riforme, anche di carattere fiscale, in tema di federalismo e il sempre più forte trasferimento di competenze e di quote di sovranità in favore di organizzazioni sovranazionali hanno rafforzato, rispetto a tredici anni fa - quando si consumò l’esperienza della Bicamerale guidata da Massimo D’Alema - la necessità di trovare piena ed equilibrata corrispondenza nella revisione costituzionale della forma di governo».

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