Cronaca locale

Fini, l'arbitro in campagna elettorale

Ma quale figura super partes: il presidente della Camera percorre in un solo giorno l’Italia da Sud a Nord pur di supportare i candidati sindaci del Terzo polo. E pensare che un anno fa, in nome dell’imparzialità, disertava le manifestazioni del Cavaliere

Fini, l'arbitro in campagna elettorale

Milano - «Milano sarà una no Fli zone». La stilettata è del segretario della «Destra» Francesco Storace, uno che Gianfranco Fini lo conosce bene. Per esserne stato portavoce e a lungo camerata, prima che il presidente della Camera decidesse di sfasciare il partito. Una battuta. Ma forse qualcosa di più, visto che i dubbi sembrano non essere solo suoi. E come testimonia il fatto che nel simbolo che accompagnerà il giovane candidato sindaco del Terzo polo a Milano Manfredi Palmeri, di Fini non c’è traccia. Come non c’è traccia di Futuro e libertà, il progetto politico finiano tramontato ancor prima di vedere l’alba. E che, a sfogliare i sondaggi, potrebbe portar con sé in un anemico abbraccio anche l’Api di Francesco Rutelli e l’Udc di Pier Ferdinando Casini. Che, da buon vecchio democristiano, ha fiutato l’aria. E lui sì che pretende di presentare una lista separata. Con tanto di simbolo e scudo crociato.
Ieri il terzetto era impegnato in un giro d’Italia per presentare a Napoli il candidato sindaco Raimondo Pasquino, rettore dell’università di Salerno e a Milano Palmeri, il presidente del Consiglio comunale. Un Fini in sedicesimi, da mesi impegnato nell’equilibrismo di conciliare l’impegno politico a una gestione imparziale dell’Aula. Clamoroso l’episodio della seduta convocata per celebrare i 150 anno dell’Unità d’Italia con tanto di tricolore e Fratelli d’Italia a cui Palmeri si «dimenticò» di invitare Letizia Moratti. Sua concorrente alle prossime elezioni, ma pur sempre sindaco in carica. Un fatto gravissimo, tuonò la lady di ferro. Che non impedisce a Palmeri di rimanere sul suo scranno. Dal quale conta soddisfatto tutte le volte che al centrodestra mancano in aula i numeri per garantire la seduta e approvare provvedimenti fondamentali. Come il Piano di governo del territorio che Milano aspetta da vent’anni o il Bilancio di previsione del 2011 che costringe alla gestione provvisoria un Comune da oltre un milione e 300mila abitanti. Tutti appesi alle liti elettorali. Si dirà che i numeri li deve garantire il centrodestra. Vero. Ma Manfredi proprio con il centrodestra, anzi con i voti del Pdl, fu eletto. E dal Pdl incaricato, seppur giovanissimo, del prestigioso compito di governare il consiglio comunale. Difficile prendersela con lui, visti i comportamenti del «maestro». Quel Fini pronto, giusto un anno fa, a disertare la grande manifestazione convocata da Silvio Berlusconi in piazza san Giovanni in Laterano. Nei salotti della sinistra e tra i giornali fiancheggiatori c’era aria di sconfitta per il centrodestra. E Fini pensò bene di andare in soccorso del vincitore. O di quella sinistra che lui pensava sarebbe uscita vincente alle elezioni regionali. Potendo così liquidare Berlusconi e togliendo lui, ovvero Fini, dallo scomodo ruolo di eterno delfino. Non andò così. Berlusconi vinse, anzi stravinse e sappiamo che strada scelse Fini. Ma ciò che interessa è la motivazione con cui allora fu l’unico politico di centrodestra a non salire su quel palco. Ovvero la necessità, per una carica come la sua, di essere istituzionalmente super partes. Furono in molti a vedergli crescere il già pronunciato naso. E siccome il tempo è galantuomo e i Fini costruiscono le pentole, ma non i coperchi, è bastato aspettare. Con Fini volato ieri a Napoli al Caffè Gambrinus, dove ad attenderlo, con Rutelli e Casini, c’erano il candidato Pasquino e Ciriaco De Mita, coordinatore campano dell’Udc. Breve passeggiata in via Toledo per raggiungere il Teatro Augusteo ad aprir la campagna elettorale sulle note di Rotolando verso Sud dei Negrita. A Milano flauto e la Primavera di Vivaldi per lanciar la volata di Palmeri. Il tutto, ovviamente, dimenticando quell’etichetta istituzionale che dodici mesi fa gli impediva di far campagna elettorale a fianco di Berlusconi. E senza aver certo lasciato la presidenza di Montecitorio. Nemmeno dopo averlo giurato se si fosse dimostrato che la casa di Montecarlo era del cognato. Chi di dovere lo ha dimostrato, ma lui se n’è fregato. Aggiungendo bugia a bugia, pensando forse che dopo una vita di impegni traditi, aggiungerne un altro non fosse così grave. E, invece, è grave. Come è grave costruire una classe politica (ancor peggio perché giovane) sul tradimento degli elettori da cui si è preso il voto. Si dirà che il politico non ha mandato. Per legge è così.

Ma sarebbe il caso che avesse almeno una coscienza.

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