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Finita la campagna dei primati: la più lunga, la più ricca, la più dura

Secondo le ultime stime sono stati spesi 5,2 miliardi di dollari. E ora si attende il record dei votanti, che resiste da un secolo: dovrebbero superare il 65 per cento

Finita la campagna dei primati: 
la più lunga, la più ricca, la più dura

nostro inviato a Chicago

A questo punto la Storia. Si vince o si perde. Si cambia. Quattro novembre, ci siamo. L'America strappa il foglietto dal suo calendario e va a votare: in coda per se stessa. È il giorno, questo. Il giorno della fine e quello dell'inizio, una curva a gomito della vita politica e sociale di questo Paese. Perché oggi finisce la campagna elettorale più importante della storia, la più lunga, la più ricca, la più difficile. Qui si gioca una partita che la quotidianità ha abbassato a semplice confronto e che invece adesso torna a essere qualcosa di unico. Una svolta, comunque vada. Obama o McCain c'è differenza, ma non ora.
A prescindere da chi vinca, l'America racconterà di aver vissuto questa corsa infinita come qualcosa di incredibile. Qui arrossisce il paragone con le elezioni che portarono alla vittoria di Franklin Roosevelt nel 1932. S'imbarazza il parallelo con la corsa di John Fitzgerald Kennedy nel 1960, non regge il confronto con la travolgente vittoria di Ronald Reagan nel 1980. Non ce la fa neanche la rielezione di Bush nel 2004, nel dopo 11 settembre e nel dopo guerra in Irak. In ognuno di questi appuntamenti l'America stava vivendo momenti storici, però sempre uno alla volta: il post Grande depressione nel '32, la grande paura di Cuba nel 1960, il periodo più duro della Guerra fredda nel 1980. Oggi gli Stati Uniti si guardano dentro e sanno di vivere contemporaneamente la più grande crisi economica degli ultimi 80 anni e due guerre difficili e costose in Irak e Afghanistan. Tutto insieme, tutto oggi. La gente capisce. È stata martellata da 23 mesi di campagna vissuta in diretta, stamattina prende la sua scheda e va ai seggi. Vuole scegliere. Vogliono scegliere tutti: oltre il 65 per cento degli elettori è la previsione di affluenza, non succedeva dal 1908. E se serve una conferma della portata storica del voto di oggi è questa.
È l'ultimo incastro di un domino che ha fatto crollare a uno a uno i muri politici: l'America ha cominciato a pensare al 4 novembre 2008 esattamente il 3 novembre del 2004, il giorno dopo la rielezione di Bush. È partita lì, la campagna. Con la certezza che quattro anni dopo né il presidente uscente né il suo vice si sarebbero candidati: allora tutti in corsa, senza qualcuno da battere per la prima volta dal 1952. Cioè, c'era qualcuno da battere: era Hillary Clinton, la favorita, la candidata inevitabile, la donna che pensava alla Casa Bianca dall'esatto momento in cui ne era uscita da first lady, nel 2000. Hillary, una donna. Un altro pezzo di storia, perché mai l'America aveva avuto una signora come front runner. La corsa vera è partita con lei: «Sono pronta a guidare questo Paese». Sono passati due anni da quel giorno e non c'è stato un attimo di tregua. «Non c'è nessun altro Paese al mondo che obblighi i suoi candidati ad attraversarlo in lungo e in largo per due anni di fila», ha scritto l'Economist. Questa volta più delle altre. Ha cominciato Hillary e l'hanno seguita tutti. Ognuno con il suo pezzo di storia, nessuno ordinario: un nero (Obama), un ispanico (Richardson), un mormone (Romney), un cattolico e sindaco dell'11 settembre (Giuliani), un attore (Fred Thompson), il più anziano della storia (McCain), un ex pastore (Huckabee). Chiunque fosse arrivato alla fine avrebbe raccontato un pezzo d'America diverso.
Obama-McCain, sono arrivati loro. Loro perché Barack l'outsider ha messo in castigo Hillary. Dal primo appuntamento, quello in Iowa, il 3 gennaio scorso, s'è capito che questa campagna avrebbe fatto la leggenda. Lei sconfitta, lei che si riprende pochi giorni dopo con un pianto che commuove mezza America, lei che poi riperde, ma non molla, poi non ce la fa e s'arrende all'ultimo di fronte alla macchina messa su da Obama: milioni di fan, comizi oceanici, un porta a porta unico, un candidato a metà tra la rockstar e il messia.
E McCain? Fino a gennaio nessuno pensava potesse farcela. Poi il New Hampshire, il ritorno del veterano, dell'eroe ferito in Vietnam e sconfitto alle primarie del 2000: la rimonta, la vittoria, la nomination. La vice: Sarah Palin, altro piccolo ed enorme capitolo di questa campagna che per la prima volta porta una donna così vicina a entrare alla Casa Bianca non da moglie. Tutto oggi. Obama-McCain, adesso. Due Americhe, anzi una. Quella che ha speso come mai: 5,2 miliardi di dollari complessivi, l'ultima stima. Seicentoquaranta milioni la somma con cui Obama ha chiuso la sua raccolta fondi. Record anche qui. Record ovunque. Uno dopo l'altro, uno insieme all'altro. Sbriciolati dai chilometri percorsi dagli autobus dei due candidati, umiliati da una mobilitazione di massa senza precedenti: volontari, fan, simpatizzanti, curiosi. Uno contro l'altro, si decide oggi. I sondaggi non contano più: ora c'è l'idea e una scheda elettorale. L'America è pronta. L'America è già in coda da giorni. L'America sceglie.

Sta già suonando l'inno.

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