Controcultura

La Flagellazione a rovescio di Domenico Tintoretto

L'opera eredita il manierismo del padre Jacopo e presenta la scena in modo asimmetrico e rovesciato

La Flagellazione a rovescio di Domenico Tintoretto

Opera tarda, di limpida stesura elettrica, di Domenico Tintoretto (Venezia 1560-1635), questa complessa e teatrale Flagellazione (olio su tela, cm.140x131) impagina l'episodio in modo asimmetrico e rovesciato.

Pilato è a destra in basso, in primo piano, sbilanciando sulla sinistra la fustigazione con il Cristo alla colonna ignudo e i due torturatori vestiti, aggressivi e implacabili. Assistono allo spettacolo, in un interno rutilante di rossi come un palcoscenico, curiosi e sadici cortigiani tra luce e ombra, in torsioni della testa e del corpo. Solo la donna volge la testa come per non voler vedere la scena della tortura. Su tutto emerge il corpo bianco, e luminoso di luce artificiale di fiaccole, del Cristo avvitato alla colonna. Tra le soluzioni sconvolgenti di scrittura virtuosistica ci sono, sul fondo, a sinistra e a destra, figure tracciate con segni di colore in gran velocità (gli «sfregazzi» di cui parla Marco Boschini), misura del genio, non solo del padre Jacopo, ma del figlio Domenico, piuttosto immaturo nel disegno e nell'equilibrio prospettico della composizione, scossa come per un terremoto.

Jacopo aveva affrontato il soggetto in due dipinti conservati a Vienna e a Praga, affini per l'incandescente stesura. Ma l'evidenza della mano di Domenico è dimostrata dalla concordanza stilistica con le Storie di Santa Caterina conservate presso il Patriarcato di Venezia, fra le quali si distingue, per affinità compositiva e formale, la Fustigazione della Santa.

Domenico non ha la potenza del padre, ma ne eredita l'essenza cromatica e la scrittura manieristica. Egli ferma il tempo stabilito dal padre fin dal 1545-50, e non si scuote verso un gusto barocco, anche in pieno Seicento. Carlo Ridolfi, nel 1648 scrive: « ha potuto certificare il Mondo, che più difficilmente rinaschino i Tintoretti, che gli Apelli, poiché le cose operate da lui nella giovanile età, diedero materia à ciascuno di ammirazione». Così il più celebre biografo degli artisti veneziani rinascimentali e manieristi, si pronuncia in merito a Domenico Tinoretto.

Anche la sorella Marietta, detta la Tintoretta, aveva intrapreso la carriera pittorica breve per la prematura morte. Le opere di Domenico fino alla morte del padre, nel 1594, furono e sono tutt'ora confuse con quelle di Jacopo, principalmente a causa delle prevalenti commissioni richieste all'anziano pittore. Successivamente, nonostante l'artista avesse la possibilità di dare finalmente il meglio di sé, venne forse a mancare quella vena creativa che aveva caratterizzato gli anni della giovinezza. Forse, l'aver assunto interamente su di sé la bottega paterna non gli consentì di emergere come avrebbe potuto.

Impegnativa fu la realizzazione della maestosa tela per la Sala del Maggior Consiglio a Palazzo Ducale, il Paradiso. Si è a lungo creduta in gran parte della mano del padre, mentre ora si ritiene interamente realizzata da Domenico. L'ipotesi più probabile, infatti, è che Jacopo avesse eseguito il modello per il concorso (dopo che l'incendio del 1577 aveva distrutto gran parte delle più importanti sale di Palazzo Ducale) e che, tra il 1588 e il 1592, Domenico abbia effettivamente realizzato la grandiosa opera.

Per la medesima sala gli si attribuiscono anche i settantasei ritratti di dogi nella zona immediatamente sotto al soffitto e alcune tele raffiguranti battaglie e crociate. Lavorò anche per le Sale dello Scrutinio, del Collegio e del Senato. Notevole fu l'impegno per le maggiori Scuole veneziane. Per quella di San Rocco collaborò con il padre dalla fine degli anni Settanta alla decorazione della Sala Superiore e di quella Terrena. Per la Scuola di San Marco lavorò dopo il 1585, anno in cui ne divenne anche confratello. Per la scuola dei Mercanti eseguì, tra la fine degli anni '80 e gli inizi degli anni '90, un duplice ritratto dei confratelli, esposto ora presso le Gallerie dell'Accademia, oltre ad aver contribuito alla decorazione del soffitto. E, a pochi anni dalla morte, lavorò anche per la scuola di San Giovanni Evangelista.

Tra i suoi contemporanei, Domenico era grandemente rinomato per le sue capacità ritrattistiche. La sua fama aveva oltrepassato i confini del Veneto: alla fine del secolo fu chiamato a Ferrara per ritrarre la nuova regina di Spagna, Margherita d'Austria e, poco dopo, a Mantova per Vincenzo Gonzaga. Molte le chiese veneziane con opere sue, da Sant'Andrea della Zirada a San Giorgio Maggiore, alla soppressa chiesa di Santa Maria Maggiore. Per San Marco preparò, a partire dal 1594, cartoni per mosaici.

Ancora Carlo Ridolfi ci racconta che a 74 anni Domenico ebbe un colpo apoplettico che gli mise fuori uso la mano destra. Continuò a dipingere anche se menomato, fino a che morì nel 1635 e fu sepolto vicino al padre nella chiesa della Madonna dell'Orto.

L'affinità delle opere di Domenico con quelle del padre è stabilita come mandato ed eredità pittorica dallo stesso Jacopo, in una nota del suo testamento: «Voglio che mio figlio Domenico finisca le opere mie che restano imperfette, usando quella maniera et diligentia che ha sempre usato su molte mie opere». La datazione del ciclo di Santa Caterina, studiato da Giovanna Nepi Scirè, in un tempo lungo, dal 1550 circa alla fine del nono decennio, àncora l'intervento di Domenico ai tardi anni di Jacopo, quando Domenico ne prende, appunto, il testimone.

Per questo la Flagellazione è concepita nell'ultimo decennio del secolo, ancora nel riflesso condizionato della visione del padre.

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