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Il fotografo napoletano che riscattò i pellerossa

Sbarcò in Usa a fine Ottocento e salvò un bimbo apache. Che rivoluzionò la storia dei nativi

Il fotografo napoletano che riscattò i pellerossa

Massimo M. Veronese

nostro inviato a Houston

«T utte le mattine metto la seggiola fuori come faceva mio nonno, guardo la gente passare, la fotografo con gli occhi e ripenso all'amata Napoli che non rivedrò più». Carlo di cognome faceva Gentile e chi lo conosceva lo raccontava, di fatto fedele al nome, come «un gentiluomo italiano che passò gran parte della sua vita lontano dall'Italia». È difficile capire cosa abbiano in comune un fotografo napoletano di fine Ottocento e l'avvocato del Kansas Sharice Davids, prima pellerossa appena eletta al Congresso degli Stati Uniti. Eppure la storia del riscatto indiano passa anche da quest'omino dall'andare spedito, sempre un passo avanti il cammino della Storia, sliding door involontario di una storia di un secolo e mezzo fa.

I suoi indiani sono bastardi senza gloria, sbandati senza patria, disperati senza dignità. Arrivano a Victoria dal Nord Ovest, come detriti sulla spiaggia dopo una tempesta, spazzati via dagli eserciti e dalle ferrovie, sulle tracce insanguinate dei cercatori d'oro. Con l'insediamento della Hudson's Bay Company, la compagnia commerciale più antica del Canada, dagli accampamenti vicini si spostano in cerca di spazi, di affari e di fortuna le tribù Saalish della Costa Centrale, e i Nootka, o Nuu-chah-nulth, della costa ovest, guerrieri e cacciatori di balene. I suoi scatti li raccontavano fieri, in pose piene di dignità e composte, a loro modo regali. Ma nelle sue foto ci sono anche la bellezza selvaggia del Nord Ovest, i canyon abissali, il progresso che ridisegna le terre e il futuro, le miniere d'oro, le grandi praterie abitate da cacciatori bianchi, mercanti, coloni, soldati. Quando raggiunge l'Arizona, armato solo della sua macchina fotografica, incrocia gli indiani consegnati alla leggenda, quelli di Geronimo, il signore degli Apache, o di Tashunka Uitko, Cavallo Pazzo, il santone dei Sioux, o ancora Osceola, l'ultimo capo indiano dei Seminole. È lì che cambia la sua vita e un po' anche quella dei nativi americani.

Era stato istruito da insegnanti privati e educato all'arte, Gentile. Lascia Napoli a ventuno anni, convinto di tornare, invece va in Australia, nelle Indie, in Sud America, ma a casa non torna più. Voleva fotografare il mondo che cambiava, era uno dei primi a farlo, ma si adattava al mondo così com'era.

Arrivato con la moglie a Victoria da San Francisco, nel settembre 1862, apre un negozio a Fort Street. Sul Daily British Colonist, agosto 1863, mette un annuncio: «Gentile e Co. Cappelli e cuffie, abiti da matrimonio, biancheria intima per signore, violini, album fotografici, stereoscopie». Ma in California si era innamorato degli indiani e nonostante l'etnocentrismo dell'epoca vittoriana fosse anche il suo, si lamenta di come «Sua Maestà Britannica tiene gentilmente soggiogati i suoi sudditi pellerossa». Punta la sua macchina fotografica sulla corsa all'oro, sulle città minerarie, sulla vita dei pellerossa. Nello sperduto villaggio di Adamsville in Arizona, incrocia una banda di predoni indiani, hanno rapito un bambino della tribù degli Yavapai: ha cinque anni, è nato in un accampamento Kewevkapaya sulle Montagne della Superstizione e si chiama Wassaja, cioè «Colui che fa un gesto con la mano». Lo riscatta per 30 dollari, quello che costano sei cavalli, lo adotta, lo fa battezzare con il nome di Carlos Montezuma. Gli piace l'imperatore azteco.

Paolo Battaglia, editore modenese, che gli italiani d'America li insegue da sempre e li racconta nei suoi libri, è andato a cercarlo: «Ho scoperto le sue fotografie negli archivi della Library of Congress e sono rimasto affascinato da questo italiano di frontiera. L'ho immaginato un po' come Aquila della Notte, il nome indiano di Tex Willer: i luoghi erano quelli, i deserti dell'Arizona e la Monument Valley. E anche i personaggi che ha incontrato erano gli stessi, gli Apache, Buffalo Bill...».

A Chicago Gentile e Montezuma lavorano con William Cody, cioè nel circo di Buffalo Bill, il Wild West Show, ritraggono i ricchi e famosi di New York. È pronto a tornare in Europa per vendere le sue foto, ormai ha un archivio sterminato, vuole pubblicare un libro. Ma purtroppo, perché c'e sempre un purtroppo in ogni storia, a Olympia, Washington, la valigia con le foto sparisce, poi parte del suo archivio va in fiamme e in Europa non torna più. Le illusioni perdute, il disastro finanziario e la salute che lo abbandona lo uccidono: muore suicida a 58 anni, il 27 ottobre 1893. Quel che resta di lui oggi riposa a Chicago.

Aveva educato Carlos però, gli aveva insegnato l'inglese e l'italiano, lo aveva mandato a scuola: è il primo indiano che si laurea prima in scienze e poi in medicina. Diventa leader del suo popolo, fonda la Society of American Indians, la prima organizzazione per i diritti civili dei nativi, per ridare voce e memoria ai dieci milioni di caduti nelle Indian Wars, nelle pulizie etniche dei soldati blu. «Nella biblioteca di Fort McDowell, in una delle lettere di Carlos Montezuma, una sua fidanzata lo definisce dago Indian (dago veniva usato come termine dispregiativo per gli italiani) - racconta sempre Battaglia che ha raggiunto in Arizona il cimitero dov'è sepolto -, ho avuto la conferma che questo grande leader degli indiani, grazie a Carlo Gentile, aveva anche un'anima italiana». È lui a prendersi cura della vedova di Gentile e di un altro figlio. Poi, al tramonto del secolo, spariscono come polvere nelle praterie.

Oggi i primi abitatori del continente sono cinquantacinque tribù arricchite dalle slot machine e dai casinò aperti nelle riserve. Quel popolo invisibile, estraneo a casa propria, diventato cittadino americano, nonostante l'America l'abitasse da millenni, dopo gli italiani, i cinesi e gli schiavi africani, ha ora in Sharice Davids, una di loro, della tribù Ho-Chunk, figlia di una madre single, veterana dell'esercito, nella House of Representatives, il traguardo di una corsa cominciata con un bambino comprato per sei cavalli.

Da qualche parte, di nascosto da tutti, seduto su una seggiola come suo nonno, c'è probabilmente un napoletano che sorride.

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