Cultura e Spettacoli

Una galleria di classici troppo lacunosa

Saggi e recensioni «elettriche» di Roberto Andreotti. Ma con alcuni sbalzi di corrente

Non diminuisce il valore di un agile e ottimo libro qual è Classici elettrici di Roberto Andreotti (Bur, pagg. 222, euro 8,80, a parte l’inopportuna stampigliatura «Novità» in copertina, che fa pensare a un nuovo tipo di yogurt o agli ultimi arrivi di una merceria) rilevare il duplice aspetto dell’autore: un’evidente vocazione giornalistica sovrapposta a una buona formazione (interrotta per imprecisate ragioni) di filologo classico: un giornalista brillante e incline all’umorismo, e un filologo che forse intende risarcire la propria fuga dalla dura disciplina delle biblioteche con l’uso eccessivo di vocaboli quali Altertumswissenschaft («con suono di ottoni» ironizza l’autore stesso), Stimmung, epistemologia, ermeneutica etc., che possono suonare ovvi per gli specialisti, ma incomprensibili per il vasto pubblico cui la Bur vorrebbe lodevolmente ma un po’ ingenuamente rivolgersi.
Ma forse ciò si spiega con l’inevitabile prezzo da pagare per l’assemblaggio di testi già pubblicati - in questo caso per lo più sulle pagine del manifesto e di Alias. Tuttavia queste sillogi, ora molto in voga, non costituiscono di per sé un ripiego, e anzi tornano utili, giacché in tal modo non vanno distrutti, dalla velocità dei quotidiani, contributi culturali tutt’altro che indifferenti. Ma veniamo ad aspetti e capitoli di questo libro che più suscitano in positivo o in negativo l’interesse del critico.
L’obiezione principale alla struttura del volumetto è a proposito della casualità delle scelte dei classici: obiezione che può essere tuttavia alleggerita dal fatto che questi «profili» sono stati generalmente scritti in occasione dell’uscita di testi «da recensire». Tuttavia qualche tassello poteva essere inserito per rendere più organica e accettabile l’intera raccolta. Per esempio: perché non partire dal capitoletto su Polibio per parlare brevemente della decisiva svolta politica e culturale impressa all’ideologia romana da Scipione Emiliano e Lelio? Oppure, invece di attardarsi con una certa acrimonia sulle traduzioni di Catullo, stabilire qualche collegamento delle nugae catulliane con l’influsso ellenistico-alessandrino di Callimaco e quello arcaico di Saffo (i lirici greci, altro «buco nero» del volume)? E ancora, a proposito di Virgilio, con gli idilli di Teocrito? Ma la cosa ancora più strana è la totale assenza di qualsiasi accenno alla poesia satirica latina, da Lucilio a Orazio, a Persio, a Giovenale, a Marziale e, tornando all’età neroniana, persino a Petronio il quale, pur grandissimo narratore, estraneo completamente alla satira non è.
Così come è anche strano che l’autore, riferendosi con stima ed amicizia ad Alessandro Fo per ricordarne la traduzione di Rutilio Namaziano, non accenni poi alla sua ottima traduzione delle Metamorfosi di Apuleio, altro «nome pesante», mai registrato nel testo. Una idiosincrasia dell’autore. V’è poi, a volte, un’altra debolezza nella trattazione dei singoli argomenti: riferire conclusioni ormai scontate su temi a lungo dibattuti. Ad esempio, la non obiettività dei Commentarii di Cesare; o il contrasto fra «poesia dell’angoscia» e «poesia della ragione» in Lucrezio (ove è ormai nozione comunemente accettata che l’estremo razionalismo lucreziano non esclude l’approdo alle rive di un’angoscia non più consolata dalla fede nella divinità); o la antica e forse insolubile contesa sull’autore (o gli autori) di Iliade e Odissea, anche se ora prevale la tesi di un unico e reale Omero.


Ma a compensare questi difetti, vi sono nel libro molti capitoli forti, fra i quali molto bello quello su Virgilio soprattutto, più che nella parte dedicata all’alterna «fortuna» e all’oscuramento romantico dell’Eneide, in quella riguardante il famoso libro La morte di Virgilio di Hermann Broch, o quello documentatissimo e persino divertente sul laborioso, appassionato ma discutibile saggio dello scrittore inglese Samuel Butler, che viaggi, cartine geografiche e riunioni di salotto convincono a identificare Trapani come «terra dei Feaci» invece che come sempre ritenuto dalla tradizione, Corfù.

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