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Da Garmisch a oggi i Giochi, la mia vita

I miei ricordi olimpici affondano le radici negli anni della giovinezza, del ginnasio a Trento dove il professore di italiano, un genio, Aldo Ducati, aveva inventato un infallibile trucco per incatenare tutti noi: insegnava o raccontava usando sempre il «tu», e così ciascuno di noi era convinto che si rivolgesse proprio a lui: «Apri il libro a pagina 37, tu conosci il campione Sertorelli? Sai quanti metri ha saltato il norvegese Ruud?». Ascoltavamo affascinati in un silenzio di marmo: Ducati era sportivo, stanco, cioè mancino, terzino in una squadra di calcio. A ogni ora di lezione rubava da cinque a dieci minuti «per insegnarci a diventare uomini», spaziando da un tema a un altro indipendentemente da Manzoni a Pascoli, da Combi a Binda. «Fra due mesi avremo i Giochi olimpici, hai capito?» e cominciò a raccontarci della Grecia antica, della maratona e del perché il simbolo della manifestazione fossero cinque cerchi di colore diverso e allacciati l’uno all’altro, ovvero i cinque continenti della Terra.
I Giochi invernali erano nati nel 1924, gli ultimi erano stati organizzati dagli americani a Lake Placid nel 1932 e furono penalizzati da vento e bufere, nevicate e gelo. Nella gara dei 50 chilometri, ad esempio, il vincitore impiegò più di quattro ore e oltre la metà dei concorrenti si arrese. Un’edizione segnata da due nomi: la bionda pattinatrice dalle evoluzioni artistiche Sonia Henie, norvegese, e il suo connazionale Birger Ruud, vincitore del salto. Fu una lezione affascinante e memorabile che io collocai in un anfratto del cuore e che riferii a mio padre, appassionato sciatore dalla prima ora. Lo stupii, ma non più di tanto, perché dei Giochi del 1932 sapeva tutto o quasi. Mi arricchì la lezione del professore parlandomi del forte alpinista di Recoaro Gino Soldà, che aveva partecipato alla 18 chilometri, dell’altro fascinoso fondista Severino Menardi, del quale si era invaghita a Cortina una miliardaria americana che lo aveva inseguito occupando una cabina di lusso sulla nave che trasferì la rappresentativa azzurra da Genova a New York, e mi parlò anche con affettuosa stima e simpatia del conte Aldo Bonacossa, milanese, primo presidente della Fisi nel 1922 e che anch’io avevo conosciuto sul monte Bondone quando venne a inaugurare il rifugio della Sosat, assistendo a una gara di fondo che partiva da Candriai. Da quel mattino sono andati via più di 75 anni, ma ricordo ancora molto bene il volto incrostato di ghiaccioli del vincitore Normanno Tavernaro.
Prima di chiudere la sua lezione il professor Ducati ci informò che le vicine Olimpiadi si sarebbero svolte in Germania, a Garmisch Partenkirchen, e che le ambizioni azzurre erano riposte in buoni piazzamenti dei fondisti, con la speranza di una medaglia in discesa per il forte valtellinese Cinto Sertorelli.

Io, fortunato, innamorato dello sport, sapevo già che mio padre m’avrebbe accompagnato a viverle per qualche giorno e il mio destino fu segnato da allora: i Giochi invernali li ho visti tutti, caso unico, grazie a una buona salute che mi ha finora accompagnato.

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