Cronache

«Dal Baretto a Portofino con la Porsche»

È difficile dimenticare Gigi Rizzi, e soprattutto appare incredibile come sia mancato, una morte sciocca, inutile, imprevedibile. Ci capita sotto l'occhio un giornale del 1996, anno importante per Gigi, perché dopo una vita spericolata la mamma ha voluto trasferirsi a Nervi, dove per Gigi inizierà un nuovo percorso di vita. Arriva sulla costa nerviese con un libro che ha scritto tutto d'un getto e dove racconta la sua fino allora. Eccoli alcuni flash che rivelano anche lo sfondo di casa nostra, quella terra genovese che poi Gigi non smise mai di amare. Ecco i suoi ricordi:
Il Baretto. «Si parlava di donne e motori in quei pomeriggi rubati allo studio con Nino Dinnero detto “il più bello” e Alfredo Del Caratore pionieri delle spedizioni a Saint Tropez. Sognavamo la Ferrari rossa di Gin Enrico (che poi sposò la Carla Stura) e la Porsche verde di Emilietto Bruzzone che a Portofino facevano sempre effetto sulle nostre ragazze».
Scuola. «Ci fu un trasferimento importante, la mamma che ci voleva vicino iscrisse me e mio fratello Carlo al San Francesco di Rapallo, un liceo a pochi chilometri da casa. Ero confuso, frastornato, ma anche sciaguratamente libero di correre alle tre di notte dalle “entreneuse” che mi adoravano e che io portavo nella casa di Nervi con qualche amico...».
Calcio. «Calcio e ciclismo hanno segnato quei giorni di tanta felicità. Al ritorno dalle lezioni c'era sempre la partita all'americana con una porta sola e due squadre, poi lo scambio delle figurine e il rientro precipitoso per i compiti e le poesie da imparare a memoria. La domenica papà ci portava a Marassi e la prima volta che vidi la Juve fu subito amore. Ricordo ancora la formazione che vinse contro la Sampdoria: Viola, Bertucelli, Manente... la ripetevo come una rima del Pascoli. Quando papà mi presentò un uomo enorme di nome Combi il portiere dei miei sogni, non volevo più rientrare a casa».
Riviera. «Mi piaceva quel mondo che si apriva dietro le porte del “Barracuda”, a Santa Margherita, dove Van Wood, poi diventato astrologo, cantava “Butta la chiave” e Bruno Martino, l'intramontabile “E la chiamano estate” accompagnandosi al piano. Una volta riuscii anche ad infiltrarmi al “Covo” dove c'era Paolo Zavallone che cantava “Se la donna dei miei sogni”. Naturalmente tutto questo in casa doveva restare segreto». Perché queste annotazioni raccolte nel libro del '96? Perché quei personaggi, quei ricordi, quelle storie altro non erano che lo specchio della Genova di quegli anni.

Una Genova che amava ancora divertirsi, che viveva in una certa serenità, con speranza e i giovani (playboy o no) avevano un futuro davanti.

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