Cronache

le testimonianze

2 TRASGRESSIONI ADOLESCENZIALI

Le Turmac e le prime sigarette

fatte con i rametti di sambuco

Caro Lussana, dopo le biciclette ecco apparire le rare automobili del tempo di guerra. Si trattava di vecchie «Balilla» o al massimo di qualche «millecento» e «millecinque(cento)», che stante la totale assenza di carburante (la benzina era riservata alle Forze Armate), erano state adattate a funzionare a metano o a «gasogeno». Nel primo caso, portavano installate sull'apposita griglia sul tettuccio della carrozzeria due o tre bombole, lunghe come siluri, eroganti il gas che sostitutiva la benzina. Nel secondo, si osservava sul retro, nello spazio ordinariamente riservato al cosiddetto baule, un'improbabile aggeggio metallico assai panciuto, ove in una fornace costantemente accesa e alimentata da una specie di carbonella si formava una sorta di gas propulsore che, bene o male, a sua volta alimentava il motore. Qualcosa d'incredibile. Le «Topolino» (500 cc.) erano troppo piccole per essere adattate sia all'una sia all'altra soluzione.
Per circolare era necessario un permesso speciale e le donne non erano ammesse a bordo dei veicoli a motore. Inoltre, era tassativo che i parafanghi (tutti e quattro) fossero dipinti di bianco, affinché di sera, con l'oscuramento antiaereo, il veicolo risultasse più visibile.
E, a proposito della guerra, se si voleva mangiare, ma anche lavarsi, vestirsi, fumare, ed altro erano indispensabili le cosiddette «carte annonarie». Si trattava di tessere distribuite mi pare mensilmente dal Comune ad ogni nucleo famigliare, su cui erano stampati sotto forma di bollini ritagliabili, i punti per l'acquisto di generi di prima necessità. Si era alla fame, o pressapoco. Di qui la «borsa nera», cioè l'approvvigionamento clandestino direttamente presso i contadini di uova, olio, burro, strutto, formaggio, pollame, salumi, ecc. Circa il sale e lo zucchero, fioriva un commercio speciale (naturalmente clandestino) transappenninico, col rischio anche della vita. Chi disponesse di una fonte d'acquisto di caffè (al nord poteva provenire dalla Svizzera), aveva buone probabilità d'arricchirsi.
Quanto detto sopra (borsa nera a parte) era chiamata «autarchia». In Italia, stanti le limitazioni imposte dalla guerra, di necessità si fece virtù (si fa per dire) e l'arte italica d'arrangiarsi seppe dare risultati persino sorprendenti. «Lanital», «Bemberg», «Rayon» e vari altri prodotti andarono per la maggiore nella prima metà degli anni Quaranta del secolo scorso. Ma dal 1945 in poi, con l'invasione dei prodotti americani, tutto ciò sparì e non se ne parlò più.
Del «prete» per scaldare le lenzuola ha già detto Guccini. Io vorrei citare soltanto la «bouillotte» (detta familiarmente boule), borsa di gomma lunga al massimo quaranta centimetri, che riempita d'acqua calda risultava molto più pratica da inserire nel letto. Ma c'era anche chi usava il termoforo. Nelle località di campagna o montagna si trovavano in uso pure certe bottiglie di coccio, anche loro riempite d'acqua bollente (ma scottava i piedi).
Forse addirittura prima della guerra, il mio ricordo si materializzava su una figura di straccivendolo che a Bergamo circolava per le strade di periferia o della città alta (su una specie di triciclo trainante un carrettino), gridando a più non posso in mezzo alle case: «Strasseeer... o se strass... fer e piombooo». E ricordo anche certi negozietti fumosi, rischiarati (si fa per dire) da una lampadina che certamente non superava i quindici watt, dove si vendevano, in strani accostamenti, legna da ardere, patate e carbone coke (ovuli) e antracite (più calorica).
In casa c'era la corrente elettrica con due contatori: a 160 e a 260 volts. Il primo segnava il consumo della luce, il secondo quello della «industriale». Quest'ultima veniva utilizzata per le stufette elettriche e il ferro da stiro (ma c'erano ancora quelli in ferro massiccio, col manico imbottito per non bruciarsi le mani) che si mettevano a scaldare sul gas.
Ogni tanto «saltavano le valvole». Allora si doveva intervenire, arrampicati su una scala, di solito con una candela in mano, e «cambiare la valvola». La consisteva nel sostituire i resti di un filo di piombo fuso dal corto circuito, con un filo nuovo da fissare tra le due viti dei poli della medesima valvola di ceramica bianca; ma non prima di aver scrupolosamente abbassata la leva dell'interruttore principale.
Infine le sigarette e i sigari. Ecco i nomi di alcune marche che forse alcuni ricordano. Popolari, Nazionali, Milit (che era letto come acronimo di una dizione irriferibile), Africa (A.O.I), Giuba, Serraglio, Macedonia Extra, Principe di Piemonte, Savoia, Mentolo (per coloro che tentavano di smettere). E quelle estere: Turmac (Turkish Macedonian Tobacco Company, confezione speciale di metallo da 100 pezzi, di cui fornisco il frontespizio), R6 (distribuite alle forze della Wermacht), Caporal ed altre. Chiudono la rassegna i sigari Toscani e i Cavour.
Noi ragazzi, il primo approccio col fumo lo avemmo coi rametti di sambuco che avendo un'anima porosa permetteva all'aria di passare e quindi di fare da comburente ad una sostanza vegetale che bruciando emetteva un fumo bianco-azzurrino, ma che respirato avrebbe soffocato anche un cavallo.
2 IN VIA BOTTINI

Che nostalgia per quei giardini

oggi abbandonati al degrado

Caro Massimiliano, meditando sugli amarcord riguardo alla nostra città, Genova, i miei più bei ricordi vanno direttamente ai giardini pubblici di Via Bottini che mio papà, Mario Bartolini, ha già descritto proprio su queste pagine per riportare una realtà attuale abbastanza deprimente in quanto degradata e da voi illustrata con tanto di fotografia. Non so perché, ma ogni mio ricordo diventa uno spunto di riflessione che mi induce a fare dei dovuti paragoni tra passato e presente. La mia memoria non si limita quindi a semplici benché bei sentimentalismi, ma a critiche costruttive. Sarà che mi sento più sensibile in quanto mamma di un bambino di tre anni e mezzo al quale vorrei dare tutto l'affetto, l'amore nonché regalare le felicità ricevute dai miei genitori quando io stessa ero una bambina. Non che quaranta anni fa fosse tutto rose e fiori, magari i giardini pubblici a cui faccio riferimento erano più ben tenuti e allora abbastanza moderni, ma mancavano tecnologia avanzata, computer o cellulari che ora, proprio ai giardini, pullulano tra le mamme quando al tempo della mia mamma si vedevano soltanto ferri per la maglia, uncinetti o riviste. Vorrei pertanto trasmettere la stessa felicità che mia mamma mi regalava guardandomi con un occhio sui giochi e con l'altro preparandomi corredini che, per assurdo ma che proprio grazie all'amore sentito ai tempi, attualmente sto usando per mio figlio. I giardini di via Bottini non sono legati al mio ricordo soltanto da scene tenere, ma anche dal fatto che allora tali giardini erano ben tenuti e ritenuti un sano punto di riferimento per genitori e bambini. In quaranta anni sono cambiate parecchie cose, sono divenuti vetusti, non tanto perché meno moderni rispetto ai giardini che accolgono i bambini di oggi, quanto perché sono rimasti tali e quali. Cambia il tempo, ma nulla muta. E allora mi domando se non sia il caso di chiuderli per sfruttare lo spazio (anche ampio) per ricostruirli o per farne qualcosa d'altro di utile, oppure di ristrutturarli e di renderli visitabili. Invece purtroppo tutto sa di degrado e di trasandatezza e i miei ricordi mi sfuggono e svaniscono riportandomi alla realtà di oggi, tuttavia anch'essa poco invitante, in quanto è risaputo come gli spazi pubblici e verdi, anche per bambini, non solo siano limitati nella quantità, ma poco curati anche dal punto di vista della sicurezza (infatti sovente mancano di quei manti morbidi che attutiscano cadute, e quindi, anti-dolore). Per non parlare delle aree verdi mal tenute e non rispettate.


Come si fa allora a non provare nostalgia per il passato in cui i nostri genitori erano più ricchi in spirito e sentimenti (e non è poco)?
Grazie e tanti saluti estivi dalla campagna del Piemonte.
Roberta Bartolini

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