Cultura e Spettacoli

La gente non ricorda la star ma la voce e il sorriso beffardo

Se ne vuole fare un mito fasullo, ma di lui resta la simpatia di un uomo che in fondo era semplice

Un anno. Già un anno, solo un anno dalla morte di Pavarotti. E in tanti luoghi del mondo se ne celebra l'anniversario con messe cantate, con concerti di colleghi teatrali e di compagni delle sue scorribande nella musica pop e rock, con concorsi per giovani cantanti lirici. È un concerto di iniziative, quasi una competizione.
Permettete di esprimere compiacimento e anche un po' di sgomento. Istituzioni ed emittenti radiofoniche e televisive che per altri artisti scomparsi di recente e di altrettanto eccelso livello, dal tenore Franco Corelli al direttore Carlos Kleiber per esempio, non hanno mostrato la minima partecipazione ora sembrano mobilitarsi; si ripete la litania laica delle virtù, si torna a spiare nel nodo privatissimo delle famiglie che lo piangono, si ritrovano le stupidaggini delle iperboli: «il più grande», «il più grande», addirittura «la maggior ugola del secolo», come se un interprete di tale autenticità non si fosse portato nella pienezza felice dove non esistono più parametri né confronti e ogni artista è misura di stesso.
Perché tutto questo clamore? Certo, conta la fama, la notorietà, l'essere personaggio. La voce come fonte pura di bellezza, come calore d'affetti, il timbro chiaro come promessa di felicità, l'abbandono all'onda del canto come benedizione sulle parole. Gli acuti come conquista, non affaticante, ma pur vittoriosa sul peso dell'esistere: i «do» acuti, ora sottoprodotto per eleganti tenori leggeri che vi abitano per mestiere, come folgorazione e pienezza. La figura stessa, con la tondezza lieta e quell'assurdo viso truccato e un po' ansimante, era un'icona popolare, anzi una maschera, anzi un portento di cordialità emiliana e di simpatia universale. Era un prodigio, una star venerata, eppure ognuno gli avrebbe fatto posto in casa per una serata d'amicizia senza timidezza.
C'è il libro d'un compagno di tutta la vita, il musicista Leone Magiera, raffinato pianista e conciliante direttore d'orchestra, che l'accompagnava nei recital, fornendogli sostegno e anche qualche aiutino se occorreva, poiché Pavarotti era un dio del canto ma non un mago del solfeggio. Il volume che esce in questi giorni edito dall'Universal si chiama Pavarotti visto da vicino ed è un diario spontaneo di seguace e d'amico, che fa sentire di quel grande omone nelle avventure dei teatri e dei parchi popolati da migliaia di spettatori, come nella quotidianità difesa gelosamente davanti a un catino di pastasciutta o a una partita di calcio, la straordinarietà, e, più importante ancora, la libertà.
Poi, c'era tutto il tramestio pubblicitario attorno a lui, la costruzione del mito e, ahimè settore preferito dai commemoratori, la partecipazione al mondo pop e rock e alle avventure fuori dall'opera, contro la cui invadenza egli stesso cercava di difendersi, ripetendo che voleva essere ricordato come tenore. Come ha scritto in un bellissimo articolo Alberto Mattioli su La Stampa, c'è il rischio che venga celebrato «il Pavarotti sbagliato»: come se fosse grande in quanto famoso e non famoso e grande in quanto cavaliere ideale di quella grandezza aristocratica e popolare che è il teatro dell'opera italiano.
Ma pensate: nello spaventoso vortice di effimero solletico e di programmate violenze, che è il nostro mondo, uno si impone, cavalcando ogni mezzo, in virtù della bellezza della sua voce, e alla fede in tutto quello di grande, di potente, di infuocato e di meditativo, il teatro d'opera sa accendere.

Fra le mille celebrazioni, a questa verità bisognerà dare anche un minuto di affettuoso silenzio.

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