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Giù le mani dalla moda italiana

Giù le mani dalla moda italiana

Qualcuno dice che è una maniera subliminale e molto sottile di aderire alla politica dell'America First di Donald Trump. Altri sostengono che invece sono i cinesi, grandi creditori del governo americano, a pretendere aiuto dai loro debitori nella lunga marcia intrapresa anni fa per togliere all'Italia il primato delle produzioni di alta qualità. Sta di fatto che il New York Times ha pubblicato una lunga ed esauriente inchiesta sulle ombre del sistema produttivo italiano con infratitoli ad effetto tipo «The Salento Method» sopra alla descrizioni di violazioni dei diritti e della dignità dei lavoratori tali da far pensare che la Puglia sia come il Bangladesh. A noi non risulta sia così. Addirittura ci è capitato di accompagnare un'amica modellista con tanto di laboratorio sartoriale e negozio a Milano in giro per le campagne pugliesi dove in effetti è facile trovare piccole unità produttive di abbigliamento. I prezzi erano molto diversi: un euro al metro di stoffa cucita che richiede minimo un'ora di lavoro, è impensabile. L'amica in questione pagava 5 euro al paio di pantaloni in jersey e quindi facilissimi da cucire a macchina perfino per chi non sa nemmeno cosa sia una taglia e cuci. Certo qualcosa di vero c'è: il lavoro nero regna sovrano al Sud e molti imprenditori cercano scorciatoie più o meno accettabili all'enorme costo del lavoro in Italia: 16 volte più caro per ogni ora di quanto non sia in Cina. Sempre in Puglia Abbiamo visto con i nostri occhi una bellissima fabbrica di scarpe a picco sul mare diventare anno dopo anno più fatiscente e infine chiudere perché costretta a lavorare sottocosto. Quel che colpisce è che tutto questo esca con il nome di due marchi (Max Mara e Fendi) che proprio quel giorno presentavano le loro collezioni estive sulle passerelle di Milano. E che l'altro brand sotto accusa (Tod's) abbia sfilato il giorno dopo cioè ieri. Quel che non dicono i simpatici colleghi del New York Times è che loro in America non hanno praticamente produzioni di moda sul territorio: fanno tutto in paesi del terzo mondo o giù di lì con manodopera infantile e uso di sostanze altamente inquinanti. Le aziende cinesi iscritte alla locale Confindustria hanno finalmente smesso di usare sostanze cancerogene come il cromo esavalente. Si limitano a farlo nel Bangladesh e poi a rivenderlo sul mercato del low cost. Insomma che l'industria della moda abbia parecchi panni sporchi da lavare è noto a tutti, tanto che Camera Moda ha lanciato con il Green Carpet una seria campagna contro l'inquinamento ambientale e lo sfruttamento umano nel settore. Picchia però sui nervi che i più grandi inquinatori della terra, l'ultimo paese al mondo ad abolire lo schiavismo, debba venirci a far lezione.

Non è la prima volta: nel 2007 sempre il New York Times titolò un articolo «la moda italiana ai tempi delle zoccole» e non parlava certo di scarpe in legno da contadina. E se smetttessimo d'inchinarci come lacchè a questa gente che ci tratta a pesci in faccia?

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